Giudici ostaggio del potere dei p.m.
Il Tempo, 23 settembre 1996
Sono tempi un po’ tempestosi per i pubblici ministeri. Il tutto comincia una settimana fa con le dichiarazioni di De Rita a Il Tempo nelle quali il p.m. viene presentato come parte di una struttura di potere che rende il nostro Paese un vero e proprio stato di polizia. Cossiga subito intervistato da La Repubblica giudica l’analisi di De Rita “esemplare”. Il tutto non suscita molto scalpore se non per il fatto che la denuncia sia partita da un uomo accorto e moderato come De Rita. Ma a spiegare la stranezza ci ha poi pensato il Ministro della giustizia Flick che al TG 3 -dopo aver confermato al sua stima per De Rita- ha ricordato come lo stesso De Rita avesse precisato che le sue affermazioni erano state fatte “da sociologo” (per chi non lo sapesse, da sempre nel linguaggio dei giuristi nostrani “sociologo” è pressapoco sinonimo di fanfarone). Tutto sarebbe finito qui se a prospettare l’ipotesi della divisione della carriera del p.m. da quella del giudice non ci si fosse messo anche l’on. Salvi già responsabile del settore giustizia del PCI prima e del PDS poi, e da sempre solerte difensore delle istanze della magistratura associata. Comprensibile quindi l’amara sorpresa e la dura reazione di esponenti di spicco della magistratura. Primo tra questi il Segretario Generale dell’Associazione Magistrati, Bruti Liberati, che nell’editoriale dell’ultimo Bollettino de “La Magistratura” aveva salutato con favore l’avvento al governo dell’Ulivo sostenendo che la magistratura stessa, non essendo ormai più obbligata ad investire le sue energie nella difesa dell’indipendenza “da attacchi di ogni tipo”, poteva finalmente dedicarle alle iniziative di riforma in stretta collaborazione con un Ministro della giustizia finalmente disponibile a recepirle. Così Bruti Liberati ha subito gridato al tradimento con una intervista concessa, a stretto giro di posta, a L’Unità. Ha ricordato a Salvi che la divisione delle cariere non fa parte del programma elettorale dell’Ulivo. Ha ricordato che anche in Francia le carriere di giudici e p.m. sono unificate, dimenticando di dire però che in quel Paese il p.m. dipende dal Ministro della giustizia e che i procuratori generali di corte di appello -dotati di notevoli poteri gerarchici su tutta la struttura inquirente del loro distretto- sono nominati direttamente dal Consiglio dei Ministri. A differenza di molti giuristi nostrani, Bruti Liberati -che conosco da molti anni- non è uomo di cultura strettamente provinciale e sa benissimo che l’assetto del nostro p.m. contraddice molti di quei canoni organizzativi da cui gli Stati a più consolidata democrazia fanno discendere la protezione dei diritti civili nell’ambito processuale. Sa benissimo che -come è stato anche di recente sottolineato in un congresso dell’ONU di cui sono stato relatore- vi è in tutte le democrazie l’esigenza di trovare un efficace equilibrio tra autonomia del p.m. e il “requisito democratico della responsabilità” per l’ampia discrezionalità che di fatto viene ovunque esercitata dal p.m. nell’iniziativa penale e nella conduzione delle indagini. L’esigenza di evitare comunque che la protezione di uno di quei due valori si verifichi a spese dell’altro. Bruti Liberati sa anche, però, di poter tranquillamente ricorrere ad indicazioni vaghe o prive di qualsiasi riscontro perchè la grande stampa e la televisione non hanno mai consentito una puntuale confutazione delle tesi di un potere forte quale è quello della nostra magistratura: confutabilissima con dati di ricerca sarebbe, ad esempio, l’affermazione di Bruti Liberati secondo cui la divisione delle carriere, rendendo il p.m. più poliziotto di quanto non sia già, diminuirebbe le garanzie processuali per il cittadino indagato. Come Segretario Generale dell’organismo sindacale della magistratura egli fa bene il suo mestire nel difendere quel peculiare assetto del p.m. che ha certamente contribuito a dare alla nostra magistratura un potere contrattuale nei confronti della classe politica che non ha eguali in altre democrazie, un potere contrattuale che è certamente all’origine anche degli eccezionali vantaggi corporativi di cui gode la nostra magistratura a confronto di quelle di altri paesi democratici.
Se in Bruti Liberati ed in altri magistrati di cultura non strettamente provinciale la difesa dello status quo si acompagna alla intima, ancorchè inconfessata, preoccupazione che gli ampi poteri descerzionali del p.m. debbano comunque essere esercitati con “senso di autolimitazione” (self restraint), in altri vi è invece la granitica convizione che il nostro assetto del p.m. sia il migliore al mondo, un vero e proprio modello per tutti gli altri paesi democratici. A questa visione -priva di adeguate conoscenze comparate- sembra essere ispirata un’altra delle dure risposte data a Cesare Salvi su L’Unità da un altro noto magistrato, Armando Spataro. Le conseguenze di tale convinzione, soprattutto se coltivata in tutte le sue implicazioni può gravemente mortificare o addirittura annullare il rispetto dei diritti della difesa. Facciamo un solo esempio traendolo da un libro scritto alcuni anni fa da uno degli attuali componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, Agostino Viviani (cfr. La degenerazione del processo penale in Italia, pp.78-80, e 178-79). Egli pubblica una lettera con cui il presidente del tribunale della libertà di Milano lamenta di aver subito “una violenta aggressione verbale” telefonica da parte di un collega p.m. perchè il collegio da lei presieduto aveva concesso la libertà provvisoria ad un imputato contravvenendo alla richiesta del p.m. stesso. Lamenta inoltre di essere stata chiamata da quel p.m. a giustificare la sua decisione in un incontro informale di fronte al presidente del tribunale. Di aver quindi chiesto ed ottenuto di non presiedere il tribunale della libertà in un caso del tutto simile a quello già giudicato per timore di una ulteriore aggressione da parte dello stesso pm. Viviani aggiunge quindi che in questo secondo caso il tribunale “cambiò giurisprudenza”. Il collegio dei giudici venne cioè doverosamente incontro alle richieste del collega p.m. e negò la libertà. In altri paesi un comportamento dello stesso tipo da parte di un p.m. nei confronti di un giudice al fine di coartarne la indipendenza sarebbe considerato tanto grave da dar luogo ad un procedimento penale per contept of court. Da noi, invece,come ricorda Viviani, il C.S.M., portato a conoscenza dell’episodio, “non ha trovato (udite, udite!) nulla da ridire”. Dopotutto -avrà pensato il C.S.M-.si tratta solo di contrasti tra colleghi, cioè di normali contrasti in famiglia che si risolvono informamente, senza farne un dramma. E’ questa la “cultura della giurisdizione” che secondo il Segretario Generale dell’Associazione Magistrati verrebbe messa in pericolo dalla separazione delle carriere?
Due postille. La prima. Sono certo che l’attuale componente del C.S.M. Viviani ricordi molto bene il nome del p.m. che si rese protagonista di quell’episodio. Sono altresì convinto che lo ricordi molto bene ache il dott. Spataro. Con la seconda postilla intendo segnalare che le risultanze delle nostre ricerche sul processo penale non consentono certo di ritenere che una più adeguata protezione dei diritti della difesa si possa da noi ottenere solo con la divisione delle carriere dei giudici e dei p.m., chè ben più incisivi dovrebbero essere gli interventi innovatori sia sul piano dei pesi e contrappesi processuali ed istituzionali, sia su quello culturale.
Giuseppe Di Federico