Con l’azione penale obbligatoria il P.M. è sottratto a ogni controllo
Il Giornale, 21 maggio 1998
Di fronte all’ennesima iniziativa giudiziaria del pool milanese nei suoi confronti l’On. Berlusconi implicitamente solleva problemi di notevole rilevanza politica di cui altri paesi democratici si sono fatti carico, e cioè: è possibile anche nel nostro paese accertare se un cittadino viene più di altri fatto oggetto di iniziative giudiziarie, se più di altri viene indagato, se nei suoi confronti si usano mezzi di indagine o di prevenzione che in casi simili non sono utilizzati o richiesti, se cioè è divenuto oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria? E ancora: le proposte di riforma formulate dalla Commissione bicamerale offrono soluzioni valide a questo riguardo? Queste domande, si badi bene, prescindono dal caso Berlusconi che, peraltro, non le ha poste in questi termini neppure in sede di Commissione bicamerale. Assumono invece un grande rilievo politico per tutti perchè riguardano l’attuazione di valori costituzionalmente protetti in tutte le democrazie, quali quelli dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e della presunzione di innocenza.
In un suo discorso del 1940 un famoso giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Robert Jackson, ha indicato in modo molto efficace quale è “il più pericoloso potere di un procuratore”, quello cioè “che egli scelga la persona che vuole colpire piuttosto che il reato che occorre perseguire” e lo faccia per ragioni personali o politiche. In tal caso, utilizzando in maniera estesa e sistematica tutte le risorse investigative a sua disposizioni, il PM avrebbe comunque presto o tardi trovato “nella raccolta di leggi piene di un grande assortimento di reati… almeno una violazione tecnica di qualche norma da parte di quasi ognuno di noi”.
Negli altri paesi democratici si riconosce, come cosa assolutamente pacifica, che i PM esercitano e non possano non esercitare margini spesso ampi di discrezionalità nel definire i casi di cui occuparsi prioritariamente e quelli da trascurare, nel definire i capi di imputazione, nel decidere di volta in volta quali mezzi di indagine utilizzare, quali misure limitative della libertà richiedere, ecc. Tutte decisioni che di per sè determinano di fatto e nell’immediato conseguenze sanzionatorie di variabile intensità e spesso sono anche determinanti per le successive sorti del processo. Negli altri paesi a consolidata democrazia ci si preoccupa in particolare delle devastanti conseguenze che un uso indebito, improprio o partigiano o differenziato da caso a caso della iniziativa penale e dei mezzi di indagine da parte del PM può avere nell’immediato sulla vita politica, sociale, economica, familiare, sullo stesso stato di salute fisica e mentale di chi viene indagato; effetti che riguardano un cittadino che si presume innocente e che sono spesso definitivi nel senso che di regola non possono essere rimediati neppure da una sentenza assolutoria che per giunta, come da noi, giunge spesso dopo anni di disperante attesa.
Onde contenere, per quanto possibile, questi fenomeni disfunzionali e responsabilizzare l’azione del PM, negli altri paesi democratici si regola in vario modo la discrezionalità del PM stabilendo criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine che devono essere rispettati (poichè non risulta possibile tutto perseguire) e definendo i casi in cui non è nell’interesse pubblico iniziarla. Più in particolare, la tendenza che si va affermando in altre democrazie è quella di: a) definire le politiche dell’azione penale con procedure trasparenti nell’ambito del processo democratico, individuando con ciò stesso chi debba essere politicamente responsabile per tali scelte; b) garantire l’indipendenza del PM nell’applicare quelle scelte ai casi singoli ma al contempo responsabilizzarlo alla loro osservanza; c) utilizzare efficienti strutture di coordinamento all’interno degli uffici e tra i vari uffici del PM per consentire -tra l’altro- che anche preventivamente, nell’ambito dei vari uffici, venga verificata la rispondenza dei comportamenti dei PM alle scelte di politica criminale prefissata. (come esempi di tali tendenze in Europa si può far riferimento all’Inghilterra, all’Olanda e, più recentemente, alle proposte di riforma della giustizia francese del governo Jospin)
E’ questo un orientamento che trova corrispondenza anche nelle raccomandazioni di autorevoli organismi internazionali. Con una delibera adottata il 17 settembre 1987, il Comitato dei Ministri della Comunità Europea (quindi con il pieno consenso del nostro ministro) ha sollecitato gli Stati membri ad adottare il principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale e a fissare al contempo ed in maniera trasparente le priorità che avrebbero dovuto governarla. Ha sollecitato inoltre gli Stati che avevano previsto il principio di obbligatorietà nella loro costituzione (è il caso dell’Italia) ad “adottare rimedi che consentano di raggiungere gli stessi obiettivi” che si possono ottenere negli stati che adottano il principio di opportunità. Questa raccomandazione è stata motivata, tra l’altro, con l’esigenza di tutelare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e di promuovere una “maggiore unità” degli Stati membri. Delibere nello stesso senso si trovano, peraltro, anche nelle raccomandazioni dei vari Congressi dell’O.N.U sulla Prevenzione del Crimine.
Nonostante il principio di obbligatorietà dell’azione sia previsto dalla nostra Costituzione, anche da noi l’azione penale presenta gli stessi ambiti di discrezionalità degli altri Paesi. Forse ancora maggiori che in altri paesi perchè da noi si sono fortemente allentati i vincoli gerarchici negli uffici di procura e sono rilevabili differenti usi della discrezionalità non solo da un ufficio all’atro ma anche all’interno di essi tra i singoli PM (alcuni giorni fa, in una intervista al Corriere della Sera il Procuratore nazionale antimafia Piero Vigna indica che da noi vi sono PM che considerano le indagini di loro competenza come “proprietà privata”). Ciò risulta in maniera chiarissima dalle nostre interviste ai magistrati, dai lavori dell’ultima Commissione Ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario (composta in prevalenza da magistrati e presieduta dal Prof. Ettore Gallo), dalle nostre interviste ad un campione di 1000 avvocati penalisti, dagli scritti di autorevoli magistrati come Giovanni Falcone il quale espressamente lamenta che nel “nostro Paese non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e, spesso, dei singoli sostituti”.
La Commissione bicamerale ha comunque proposto di mantenere in Costituzione il principio di obbligatorietà dell’azione penale non tenendo in alcun conto nè le risultanze univoche delle ricerche condotte nel nostro Paese, nè le esperienze degli altri paesi a consolidata democrazia e neppure le raccomandazioni degli organismi internazionali cui pur apparteniamo. Tra le molte conseguenze negative di questa decisione vi è anche quella che riguarda le questioni poste dalle domande che abbiamo formulato all’inizio. Se da un canto il principio di obbligatorietà esclude la fissazione trasparente dei criteri relativi alle priorità nell’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine, l’assenza di tali criteri rende estremamente difficile, per non dire impossibile, accertare se il PM decide in modo diverso a seconda dei casi o degli indagati e se nella sua azione si possano, pertanto, ravvisare quegli intenti persecutori di cui parla il giudice Jackson. Se il Parlamento confermerà le proposte della Commissione bicamerale in merito all’obbligatorietà dell’azione penale, questa rimarrà di fatto assolutamente irresponsabile (come diceva Falcone) e a qualsiasi accusa di un uso distorto dell’azione penale e dei mezzi di indagine il PM potrà per il futuro, come regolarmente avvenuto per il passato, legittimamente affermare, senza tema di smentita, che si trattava di “atti dovuti”. In futuro, come in passato, potrà seguitare anche a rappresentare i rilievi che gli vengono mossi come strumentalmente volti a ostacolare la piena applicazione del principio di obbligatorietà e qualsiasi ispezione ministeriale a riguardo come una intimidazione volta ad alterare il normale corso delle attività giudiziarie.
Stando alle notizie riportate dai giornali, alle dichiarazioni fatte dai rappresentanti dell’opposizione ed in primo luogo dall’On. Berlusconi, sembrerebbe che la principale condizione per raggiungere un accordo sulla riforme costituzionali in materia di giustizia sia la divisione delle carriere dei giudici e PM. Si tratta certamente di questione importante, di un assetto che caratterizza tutti i paesi a consolidata democrazia (fatta eccezione per la Francia che però ha ancora il giudice istruttore), di un assetto che forma oggetto di esplicite raccomandazioni di autorevoli organismi internazionali (ivi compreso il Parlamento Europeo). Di per se non è, tuttavia, di certo sufficiente a consentire puntuali verifiche sulle modalità con cui di fatto i PM esercitano l’azione penale ed a responsabilizzarne le scelte discrezionali. In altre parole se, come giusto in democrazia, si vuole consentire anche in Italia che un cittadino possa trovare risposta alle sue convinzioni di essere oggetto di indebite iniziative giudiziarie, di indagini che non vengono egualmente svolte su altri cittadini che si trovano in condizioni del tutto simili alle sue, un efficare rimedio può essere trovato solo seguendo la strada percorsa dagli altri paesi a consolidata democrazia, e cioè disciplinando e responsabilizzando secondo criteri trasparenti la discrezionalità del PM.
Una sola postilla. Su L’unità di lunedì scorso il Senatore Salvi ha dichiarato che “siamo vicini….ad una riforma che europeizza anche il nostro assetto costituzionale” Certamente non è così per quanto riguarda l’azione penale e la divisione delle carriere. E non si tratta certo di questioni che possono essere considerate di secondaria importanza in democrazia.