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Che cos’ha la Baraldini più di Gelli?

29 agosto 1999

Il Resto del Carlino, 29 agosto 1999

I quotidiani degli ultimi giorni sono pieni di commenti  sulla applicabilità in Italia delle condizioni imposte dagli Stati Uniti per consentire il trasferimento di Sivia Baraldini in un carcere italiano.  In particolare ci si chiede se quelle condizioni, pur accettate dal nostro governo, possano impedire alla Baraldini di ottenere i vantaggi previsti dalle nostre norme carcerarie (liberazione prima della scadenza dei termini imposti dal giudice americano, permessi, libertà vigilata, ecc.).  Sono scesi  in campo ex giudici costituzionali, ex ministri della giustizia, noti giuristi e magistrati.  L’ex ministro della giustizia Flick, in una intervista concessa a Il Mattino di Napoli,  ci ha fatto sapere che il ministro Diliberto non è più bravo di lui: lui stesso, quando era ministro del governo Prodi, sarebbe riuscito a riportare la Baraldini in Italia se solo fosse stato disponibile a sottoscrivere le condizioni inaccettabili  che invece Diliberto ha approvato.

Altri eminenti giuristi ci hanno spiegato che sarà giuridicamente impossibile dare applicazione alle condizioni imposte dagli Stati Uniti perché sono in contrasto con le nostre norme carcerarie e anche perché imporre alla Baraldini condizioni carcerarie diverse da quelle degli altri detenuti contravverrebbe il principio costituzionale dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge.  Ciò che questi illustri giuristi non dicono o ignorano è che quegli stessi problemi si sono già ricorrentemente  posti nell’applicazione degli accordi internazionali di cooperazione giudiziaria, e che, per quel che mi risulta, negli altri casi gli accordi internazionali sono sempre stati rispettati dai nostri magistrati, nonostante il loro contrasto con norme ordinarie e  principi costituzionali italiani.   Un caso noto è quello di Gelli che quando fu estradato in Italia non poté essere giudicato dai nostri giudici per tutti i reati di cui era imputato perché questa era la condizione posta dalla Svizzera per consegnarlo alla nostra giustizia.  Ma i casi relativi a persone di nessuna notorietà sono ormai numerosi ed emergono chiaramente dalle ricerche di monitoraggio del “nuovo” processo penale che abbiamo condotto nei primi anni ’90 in collaborazione col Ministero della Giustizia.  In più di una circostanza giudici e pubblici ministeri ci hanno documentato casi nei quali, per dare applicazione al trattato di mutua assistenza penale firmato con gli Stati Uniti nell’82, si era dovuto contravvenire al nostri principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.  Si trattava di casi nei quali non avevano potuto incriminare e neppure iscrivere nel registro degli indagati cittadini italiani detenuti nelle carceri degli Stati Uniti e momentaneamente trasferiti in Italia per essere interrogati nell’abito di nostri processi, nonostante dalle dichiarazioni da loro rese in sede processuale fosse risultato che avevano commesso in Italia reati di cui non si aveva prima conoscenza.  Vi sono poi i casi delle rogatorie previste da accordi internazionali in base alle quali i nostri giudici assumono prove recandosi all’estero e ove, come avviene ad esempio negli Stati Uniti, sono affiancati in udienza  da un Commissioner che in via definitiva decide di volta in volta se ammettere o no le domande dei magistrati e avvocati italiani  ed elude spesso con i suoi ricorrenti veti il principio del contraddittorio posto a garanzia dell’imputato.  Non possiamo qui ricordare le motivazioni con cui i magistrati coinvolti in quelle esperienze giustificano le deviazioni dalla piena osservanza di norme ordinarie e principi costituzionali, nè le loro lamentele sui ritardi nel dare soluzione legislativa e costituzionale ai problemi di compatibilità tra normativa nazionale e previsioni degli accordi internazionali in materia di collaborazione giudiziaria.  Ci interesserebbe però sapere perché nel caso della Baraldini il conflitto tra leggi nazionali e accordi internazionali, che chiama sempre in causa il principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge, dovrebbe essere risolto dai nostri magistrati con un orientamento diverso da quello adottato negli esempi che abbiamo dianzi fatto?  Forse perchè nella maggior parte dei casi si tratta di sconosciuti?  O forse perché la Baraldini, godendo delle  simpatie politiche di ampi settori della maggioranza governativa, è “più eguale” degli altri? 

Voglio subito aggiungere che queste non sono le uniche riflessioni che mi  ha suggerito il caso Baraldini.  Sul fronte opposto di quelli   vorrebbero vedere applicate i vantaggi concessi dalle nostre norme carcerarie anche alla Baraldini  vi sono quelli che in nome della credibilità del nostro Paese sul piano internazionale chiedono la piena osservanza delle condizioni sottoscritte per il suo trasferimento in un carcere italiano.  A questo generico orientamento ne voglio aggiungere uno più concreto.  In questi giorni si è più volte ricordato che sono molti gli italiani detenuti all’estero, anche negli Stati Uniti,  e il ministro Diliberto ha dichiarato che anche per loro è  necessario impegnarsi ad ottenere, come per la Baraldini, il trasferimento nelle nostre carceri. Si può forse immaginare di ottenere questo risultato, e con esso anche un eguale trattamento degli altri detenuti italiani all’estero, nel caso non venissero rispettati gli accordi sottoscritti dal nostro governo per ottenere il ritorno della Baraldini?

Un’ultima riflessione merita l’ipotesi da alcuni avanzata, e ripresa da Cossutta in una intervista al Corriere della Sera,  e cioè che la liberazione anticipata della Baraldini potrebbe essere ottenuta, come già avvenuto in passato per Toni Negri,  facendola eleggere al Parlamento nelle prossime elezioni .  Per ora la legge non lo consente, ma visti i precedenti non si sa mai.  Ad ogni buon conto gli Stati Uniti nel consentire di nuovo che un suo detenuto italiano venga trasferito nelle nostre carceri potrebbe in futuro voler  includere nell’accordo una ulteriore clausola, e cioè che il nostro Parlamento non possa in nessun caso essere considerato un settore del carcere di Rebibbia.

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