“Caro Pellegrino, non spetta ai giudici la condanna politica”
Il Messaggero, 19 luglio 2000
Il Senatore Giovanni Pellegrino gode fama di essere uno dei massimi esponenti dell’ala garantista dei Democratici di Sinistra. Domenica scorsa ha tuttavia rilasciato un’intervista al Il Messaggero sul processo al Senatore Andreotti che rivela quanto poco garantista e liberale egli sia. Non è il solo politico del genere e non varrebbe la pena di parlarne se il suo orientamento non fosse condiviso da molti magistrati e non avesse portato ad una pericolosa e, purtroppo, frequente alterazione della stessa natura della funzione giudiziaria nel nostro Paese. Vediamo di cosa si tratta. Nell’intervista il Senatore Pellegrino esprime l’opinione che il processo di Palermo ad Andreotti non si sarebbe dovuto fare, perchè non vi erano prove sufficienti. E fin qui potrebbe essere scambiato dal lettore per un garantista desideroso di evitare ai cittadini una ingiustificata ed ingiusta esposizione alla gogna di un pubblico processo. E’, tuttavia, un’impressione che viene subito smentita dalla risposta alla successiva domanda con cui l’intervistatore gli chiede cosa, a suo avviso, avrebbe dovuto fare la Procura di Palermo. Pellegrino testualmente risponde: “La procura avrebbe potuto imboccare la strada della mediazione, chiedere l’archiviazione pur accompagnando la richiesta con un duro giudizio sulle responsabilità politiche di Andreotti”. Tralascio di commentare la bizzarra concezione che Pellegrino sembra avere della figura della mediazione giudiziaria e del rapporto che può intercorrere tra mediazione ed archiviazione. La questione che qui interessa è un’altra.
Nei paesi a consolidata tradizione liberale i giudizi sulle responsabilità politiche vengono in ultima istanza dati dagli elettori col loro voto. La risposta del Senatore Pellegrino rivela invece, senza ombra di dubbio, come egli ritenga che rientri tra i compiti del magistrato anche quello di emettere condanne politiche nell’ambito di un atto giudiziario; in particolare, come egli ritenga pienamente legittimo che un magistrato possa scagionare un cittadino da qualsiasi responsabilità penale ed allo stesso tempo condannarlo per le sue responsabilità politiche. Una delle caratterisiche dei provvedimenti giudiziari in una sistema demoliberale è quella di essere appellabili. Se il cittadino viene condannato penalmente può impugnare la sentenza. Ma cosa può fare per difendere la sua onorabilità un cittadino che viene prosciolto ed al contempo riceve dal magistrato, come suggerisce Pellegrino, un “duro giudizio” di condanna per le sue responsabilità politiche? Assolutamente nulla sul piano giudiziario perché non si tratta di condanna penale. Nel caso poi il cittadino che riceve dal magistrato una condanna politica sia un grande leader, come Andreotti, quel giudizio -senza contraddittorio e senza appello- può essere invece facilmente utilizzato e strumentalizzato dai suoi avversari politici come si trattasse di una condanna comprovata dall’autorevolezza di un magistrato imparziale. E’ questo che il senatore Pellegrino avrebbe voluto dai magistrati di Palermo? La risposta definitiva non possiamo certo darla noi (anche se, ovviamente, qualche idea in merito l’abbiamo). Posta su un piano più generale quella domanda è tuttavia di notevole importanza ed attualità per chi voglia uno stato anche solo moderatamente garantista. Nel nostro recente passato, infatti, si è spesso verificato che le iniziative giudiziarie di magistrati inclini ad emettere valutazioni politiche siano state utilizzate con grande successo nell’ambito della competizione politica. Ricondurre il ruolo giudiziario nell’alveo suo proprio e sottrarre la competizione politica alla suggestione di strumentalizzare le attività dei magistrati per conseguire facili successi nei confronti degli avversari politici è certamente un compito finora trascurato ma di grande importanza. Tuttavia un compito non facile in un Paese come il nostro nella cui storia politica l’ideologia liberale e garantista non ha certo solide e diffuse radici.