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I magistrati governano le carceri ma il sistema non marcia

19 agosto 2000

Il Messaggero, 19 agosto 2000

L’altra sera il telegiornale del TG 3 ha trasmesso alcune toccanti interviste da carceri malandate e sovraffollate.  Ancora una volta si è ricordato quanto sia inumano e pericoloso tradire le aspettative che molti detenuti avevano riposto nelle proposte di amnistia e indulto avanzate negli scorsi mesi.  Sono immagini ed aspettative che rimangono identiche a quelle trasmesse in passato quando si sollecitavano con successo altri provvedimenti di clemenza.  Ora come allora le proposte della maggioranza di governo per dare soluzione definitiva al problema sono le stesse delle altre volte:  consistenti aumenti di personale e maggiori stanziamenti di danaro per l’edilizia carceraria.  Mai una volta che ci si domandi se la struttura gestionale dell’intero sistema carcerario sia adeguata, se la sua dirigenza sia professionalmente qualificata a governarlo con efficienza ed efficacia, se essa sia fornita di quella comprovata capacità diagnostica e progettuale che è necessaria per un sistema organizzativo di grande dimensione e complessità quale è quello carcerario.  Quando si tratta di danaro pubblico sembra che queste domande siano irrilevanti.  E invece lo sono, indistintamente, sia per coloro che ora sono favorevoli ad  un provvedimento di amnistia sia per coloro che sono ad esso contrari.  Lo sono soprattutto per i detenuti, cioè per garantire loro, almeno in futuro, condizioni di vita degne di un paese civile.

Il nostro sistema carcerario è una struttura estremamente complessa e costosa:  258 carceri di diverse dimensioni distribuite su tutto il territorio nazionale che ospitano complessivamente 53.000 detenuti; 17 provveditorati regionali;  51 centri di servizio sociale per l’assistenza ai carcerati;  7 scuole di formazione del personale;  tre magazzini vestiario.  Secondo i dati più recenti, chi ha la gestione di questo sistema ha a sua disposizione un bilancio annuale di circa 4.200 miliardi.  Da lui dipendono 5.893 unità di personale amministrativo e oltre 41.000 componenti il corpo di Polizia penitenziaria.  Si tratta di un compito che per essere adeguatamente svolto richiede competenze professionali più complesse e diversificate di quelle di altre organizzazioni della stessa dimensione.  Competenze che vanno dalla ottimizzazione delle risorse nel settore dell’edilizia carceraria e della manutenzione del complesso delle 258 carceri (diversissime tra loro) ai problemi della loro sicurezza ed igiene;  dalla definizione dei programmi di formazione del personale, a quelli della sanità e lavoro nelle carceri,  dalla ottimizzazione degli acquisti e dello stoccaggio nei magazzini dei beni (cibi, vestiario, ecc.) occorrenti per detenuti e polizia penitenza, ecc. ecc. fino ai problemi del comando effettivo dei 41.000 componenti del corpo di Polizia penitenziaria.  Dal 1981 il Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena ha assunto anche le caratteristiche di un vero e proprio generale di un corpo armato:  percepisce, infatti, oltre al suo stipendio, anche la stessa cospicua indennità pensionabile di comando attribuita al Comandante generale dell’Arma dei carabinieri e al Comandante generale della Guardia di finanza (se ben ricordo a quell’epoca tale indennità era già di circa 80 milioni). 

Sin dagli anni ’20 la dirigenza del sistema carcerario, è sempre stata affidata ad un magistrato di grado elevato, la cui preparazione professionale, però, non comprende nessuna delle specifiche competenze richieste per svolgere i complessissimi compiti che ho sommariamente indicati.  Nulla della sua precedente esperienza professionale qualifica il magistrato a quei multiformi e specialistici compiti gestionali e di comando.  Nella migliore delle ipotesi i suoi precedenti contatti col sistema carcerario possono essere stati solo quelli di aver svolto per un certo periodo le funzioni di magistrato di sorveglianza o di essersi recato saltuariamente in qualche carcere per interrogare un detenuto.  Nel proporre la nomina del direttore generale del sistema carcerario al Consiglio dei ministri il Ministro della giustizia è tenuto ad osservare un solo criterio di selezione: il magistrato da lui scelto deve avere almeno 28 anni di servizio, essere cioè “magistrato di cassazione con funzioni direttive superiori” (le promozioni in magistratura non sono di fatto basate sul merito ed il vertice della carriera si raggiunge per mera anzianità dopo 28 anni dal reclutamento).  Di regola la scelta del Direttore delle carceri viene effettuata per soddisfare le aspettative di un magistrato gradito al Ministro o per trovare una collocazione di prestigio a magistrati in difficoltà (come avvenne alcuni anni fa, le difficoltà in cui si trovava l’allora Procuratore della Repubblica di Roma Michele Coiro vennero risolte dal Ministro della giustizia Flick chiamando quel magistrato alla direzione generale delle carceri).  D’altro canto il Ministro non potrebbe, anche se lo volesse, scegliere persone con una specifica capacità professionale:  le leggi attuali, ad esempio, non gli consentirebbero neppure di scegliere uno di coloro che hanno diretto con successo e per molti anni una o più delle 258 carceri esistenti. 

Perché quando si discute dei problemi delle nostre carceri non si discute mai del suo assetto gestionale?  Perché non ci si domanda se i requisiti attualmente previsti per la nomina del Direttore generale e dei suoi più stretti collaboratori, anch’essi magistrati, siano adeguati?  Si pensa veramente che i drammatici problemi del nostro sistema carcerario possano essere avviati a soluzione solo con ricorrenti aumenti di bilancio e di personale, senza mai preoccuparsi di assicurare all’amministrazione carceraria una dirigenza che sia professionalmente qualificata a gestire efficientemente quelle enormi risorse ed a promuovere condizioni generali di maggiore funzionalità?

Due postille per non essere frainteso.

La prima.  La mia critica non è rivolta ai magistrati che dirigono o hanno diretto le carceri sinora, ma è invece una critica al sistema tipicamente burocratico, pre-moderno con cui quei dirigenti vengono scelti.

La seconda postilla.  A partire dal l990 la legge prevede che a dirigere il sistema carcerario possa essere chiamato sia un magistrato di cassazione con funzioni direttive superiori (fino ad allora bastava essere magistrato di cassazione) sia anche un dirigente dello Stato con equivalente livello di carriera.  I magistrati, tuttavia, sono sempre riusciti a mantenere tale nomina nel loro ambito, con una sola eccezione (sa fa per dire).  Il magistrato di cassazione che dirigeva le carceri nel 1990, Nicolò Amato, non aveva ancora le funzioni direttive superiori e avrebbe dovuto lasciare l’incarico.  Venne subito nominato prefetto di prima classe e rimase al suo posto.

 

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