Falcone e la storiella del corvo
Libero, 29 maggio 2001
Sono molto grato all’amico Farina per l’articolo “La sinistra condannò Falcone” pubblicato su Libero, sabato scorso. Non certo perchè mi cita così ampiamente, ma bensì perché solleva questioni relative ad eventi che nei nove anni trascorsi dall’assassinio di Falcone non sono stati trattati col dovuto rigore oppure sono stati dimenticati. E’ così accaduto, come dice Farina nel suo articolo, che proprio coloro i quali lo avevano più avversato, cioè i politicanti delle varie correnti della magistratura organizzata e vari esponenti dell’ex Partito Comunista, poco a poco si siano impossessati strumentalmente della Sua memoria, e dell’eroico carisma della Sua figura, riuscendo a far passare nell’oblio le iniziative che avevano pervicacemente e ripetutamente assunto contro di lui. In particolare contro i tentativi che di volta in volta Falcone assumeva sia per dare il suo personale contributo in attività giudiziarie che nessun altro avrebbe potuto svolgere con pari professionalità, sia per creare un più efficace assetto istituzionale della giustizia. Un vero e proprio impegno di vita, perseguito con grande intensità e con piena consapevolezza dei pericoli cui andava incontro. Moltissime testimonianze potrebbero essere portate a riguardo. Ne ricordo una sola, emblematica e tragica allo stesso tempo. Una volta mi chiese notizie di mio figlio. A mia volta gli chiesi se non desiderasse avere figli anche lui. Sorrise e mi rispose che se si ha il diritto a veder nascere i propri figli si ha anche il dovere di non far nascere degli orfani. Ebbi distintamente l’impressione che nel dirlo, quasi soprappensiero, non stesse dicendo quelle cose a me, ma le stesse ricordando a se stesso.
Certo Farina ha ragione quando sostiene che l’allora potentissimo Partito comunista e l’altrettanto potente sindacato dei magistrati, sia pure con eccezioni a livello personale, sono stati i più accaniti detrattori di Falcone, quelli che con più determinazione e successo hanno impedito che assumesse ruoli di maggior rilievo giudiziario nella lotta alla mafia (la bocciatura per il posto di consigliere istruttore di Palermo e l’opposizione alla sua nomina a procuratore nazionale antimafia). Sono anche stati quelli che hanno contrastato con maggior successo le sue iniziative di riforma nel settore delle riforme ordinamentali, quali quella di ristrutturare l’assetto del nostro pubblico ministero per potenziarne la capacità di coordinamento sul piano nazionale e delle collaborazioni internazionali creando con ciò stesso, come negli altri paesi democratici, un più funzionale equilibrio tra indipendenza e responsabilità nell’esercizio dell’azione penale e nelle attività di indagine ad esso collegate.
Se si volesse rendere giustizia postuma alla figura di Falcone, al di là delle celebrazioni che strumentalmente ne fanno ora proprio coloro che più lo hanno avversato in vita, sarebbe necessario ricostruire con testimonianze e documenti affidabili i percorsi della sua complessa azione. Nel suo articolo Farina indica due aspetti da approfondire e cioè i suoi difficili rapporti con la magistratura organizzata e con il mondo politico.
Quanto ai suoi difficili rapporti con la magistratura organizzata Farina ricorda, tra l’altro, il tentativo compiuto dall’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) di censurare Falcone perché nella sua relazione ad un convegno tenuto a Milano (il 5 novembre 1988) aveva annoverato tra le cause della crisi della giustizia anche la scarsa professionalità di una parte dei magistrati. Va aggiunto che in quella stessa occasione egli espresse critiche molto pesanti anche sul ruolo dell’ANM: “sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi e sempre meno il luogo di difesa e di affermazione dei valori della giurisdizione nell’ordinamento democratico”. Gli episodi che testimoniano la sua avversione nei confronti dei metodi con cui operava l’ANM sono tanti. Ne ricordo uno solo, perché mi sembra particolarmente significativo per comprendere la natura del contrasto. La mattina del 9 ottobre 1990 Falcone mi telefonò molto arrabbiato e mi domandò se avevo letto gli articoli che erano apparsi quella mattina su Il Giorno, La Repubblica e Il Giornale a proposito di una riunione dell’ANM svoltasi il giorno prima a Palermo. La riunione era stata convocata a seguito dell’assassinio del giudice Livatino per approntare richieste di riforma da proporre al Governo. Mi disse che si era formata una commissione di studio pletorica e lottizzata (quattro rappresentanti per ciascuna delle correnti dell’ANM). Che inoltre si era deciso a maggioranza che tale commissione di studio dovesse comunque esprimersi a favore del mantenimento dell’obbligatorietà dell’azione penale e contro qualsiasi forma di coordinamento del pubblico ministero basata sulla gerarchia. Ritenendo questi vincoli inaccettabili per una commissione di studio e sostenendo che in tal modo “si esorcizzavano i problemi invece di risolverli e si demonizzavano coloro che volevano farlo” lui si era dimesso, subito seguito da Borsellino. Fu per questo violentemente accusato, in particolare dai rappresentanti della corrente di Magistratura Democratica, di comportamento antidemocratico perchè si rifiutava di accettare i vincoli posti dal voto della maggioranza dei colleghi. Per stemperare la sua rabbia gli raccontai una storiella inglese sui limiti della democrazia che ben rappresentava il comportamento dei suoi colleghi, quella cioè del ragazzo che disse alla madre di aver visto, insieme ad un gruppo di amici, un corvo femmina e alla domanda della madre che voleva sapere come lui ed i suoi amici avessero accertato che il corvo fosse femmina il ragazzo rispose che avevano votato. Era un gioco delle parti che spesso si ripeteva tra di noi: quando sui problemi della giustizia uno si arrabbiava l’altro sdrammatizzava.
Quanto ai suoi rapporti con i politici, che Farina ricorda nel suo articolo, se ne sono dette di tutte. Tra le molte, si disse che era vicino al Partito Comunista ai tempi del maxi processo ai mafiosi, si disse che era vicino alla Democrazia Cristiana quando incriminò per calunnia un pentito che accusava Lima, si disse che era vicino ai socialisti quando fu nominato dal Ministro Martelli Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. E’ certamente vero che ha avuto contatti con uomini politici di vari partiti. Ad alcuni di essi ho partecipato, anche perché a volte io stesso li avevo propiziati. Lo scopo di questi contatti non era certo quello perseguito da altri magistrati, e cioè di stabilire rapporti politici preferenziali con questo o quel partito, con questo o quel leader politico, ma solo quello di esplorare se vi fossero spazi, anche solo parziali, per la realizzazione di riforme nel settore giudiziario che Lui riteneva necessarie. Un orientamento che era stato da sempre anche il mio. Nel suo articolo Farina ha voluto ricordare che Martelli, sin dall’inizio della sua esperienza di Ministro della giustizia, aveva chiesto la mia collaborazione tecnica, ed ha ricordato anche l’episodio della chiamata di Falcone al Ministero della Giustizia. Aggiungere qualcosa a quanto da lui scritto a riguardo è utile proprio per illustrare quale fosse l’orientamento di Falcone nei sui rapporti coi politici. Quando gli telefonai per chiedergli, a nome di Martelli, se fosse disponibile ad assumere la carica di Direttore generale degli affari penali al Ministero della giustizia, prima di darmi una risposta mi fece un serrato interrogatorio per verificare se vi sarebbe stata la disponibilità del ministro a promuovere riforme delle quali avevamo più volte parlato, inclusa quella del coordinamento nazionale delle attività del pubblico ministero nel settore della criminalità organizzata. Non si accontentò di assicurazioni generiche. Volle sapere in dettaglio quali fossero gli elementi su cui io avevo formato il mio convincimento della effettiva disponibilità del ministro. Solo dopo aver riflettuto sulle mie risposte accettò di venire a Roma per parlare direttamente con Martelli.