Intervento al CSM sulle attività exragiudiziarie dei magistrati
Intervento del Consiglier Di Federico sulle attività extragiudiziarie dei magistrati effettuato nel Plenum del CSM del 12 dicembre 2002.
Nel mio intervento in plenaria del 13 novembre scorso sulle valutazioni di professionalità ho detto che esisteva un collegamento tra l’assenza di effettivi vagli della professionalità e le attività extragiudiziarie dei magistrati. Non a caso ho usato l’espressione “attività extragiudiziarie” e non “incarichi extragiudiziari”. So bene che solo questi ultimi rientrano nella competenza decisoria del CSM mentre l’espressione “attività extragiudiziarie” comprende anche attività, come le cariche elettive e gli incarichi dei magistrati negli organi di
governo a livello nazionale e locale, che nel nostro paese hanno acquisito dimensioni sconosciute negli altri paesi d’Europa a consolidata democrazia. Ho ritenuto di non poter limitare il mio discorso solo agli incarichi extragiudiziari non solo perchè sia questi che gli altri pongono problemi all’indipendenza della magistratura ed alla sua immagine di imparzialità ma anche e soprattutto perché tra gli uni e gli altri esiste, come cercherò di mostrare, un rapporto di pericolosa continuità. Nel novero degli incarichi extragiudiziari ho incluso anche tutti gli incarichi che vengono deliberati dal CSM e che si riferiscono ad attività per le quali la legge prevede che i magistrati siano collocati fuori ruolo. Le distinzioni che si possono fare tra le attività che implicano il fuori ruolo e quelle che si possono svolgere in concomitanza con l’esercizio delle funzioni giudiziarie non hanno alcun rilievo ai fini di questo mio intervento e servirebbero solo a rendere più farraginoso il mio discorso.
Premetto che il fenomeno delle attività extragiudiziarie è in vari modi connesso alle tradizionali caratteristiche burocratiche delle magistrature dei paesi di civil law. Poiché nella tradizione di questi paesi i magistrati sono pubblici dipendenti si è sempre ritenuto che essi potessero essere comunque destinati a prestare la loro opera, a tempo pieno o parziale, in altri organismi ove si ritenga che ciò sia nel pubblico interesse o comunque non con esso in conflitto. E’ quindi un fenomeno presente in varia misura in tutti i paesi dell’Europa continentale ma che assume caratteristiche di particolare ed ineguagliata intensità in Italia, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’60. Guardando agli incarichi extragiudiziari stricto sensu deliberati dal CSM si può vedere che negli ultimi 35 anni sono stati varie decine di migliaia. Nei 10 anni che vanno dal 1992 al 2001 le delibere in materia annualmente adottate dal CSM variano tra un minimo di 1.307 (del l977) ed una massimo di 2.464 (del 1994). Secondo i dati forniti nella “Relazione sulle attività del CSM nell’anno 2001” predisposta dal nostro Ufficio studi, nello scorso anno le delibere in materia di incarichi extragiudiziari sono state 1411 con 46 reiezioni, due archiviazioni e 153 casi deliberati “in altro modo”, secondo la dizione dell’Ufficio studi. Anche a non voler considerare queste 153 delibere (sarebbe troppo complesso), gli incarichi extragiudiziari per il 2001 sono stati 1210. Quindi, se tiriamo le somme, si tratta di oltre 15.000 incarichi giudiziari deliberati dal Consiglio solo nell’ultimo decennio. A questi si aggiungono molti collocamenti fuori ruolo per svolgere attività a tempo pieno presso altre istituzioni, E’ un fenomeno che riguarda un numero di magistrati che nel complesso è sempre stato superiore alle 220 unità e che comprende sia attività autorizzate dal CSM (ad es. magistrati nei vari ministeri, negli organismi internazionali ecc.) sia attività per cui tale autorizzazione non è prevista (ad es. quelle elettive in Parlamento e negli enti locali).
Non a caso la progressiva crescita degli incarichi extragiudiziari, e più in generale delle attività extragiudiziarie dei magistrati, si è verificata nel nostro Paese, proprio a partire dalla fine degli anni ’60, cioè col venir meno di sostantive valutazioni della professionalità che si basavano prevalentemente sugli atti giudiziari dei candidati. In un corpo reclutato burocraticamente nel quale i giovani reclutati vengono subito a conoscenza del fatto che tutte le gratificazioni interne verranno acquisite a prescindere da effettive valutazioni della professionalità e che, salvo grave demerito, in 28 anni raggiungeranno comunque il massimo livello della carriera ed il relativo trattamento economico, che per giunta otterranno le promozioni per meriti giudiziari anche a prescindere dal continuo esercizio delle funzioni giudiziarie, è solo normale che si sviluppino tendenze a ricercare ed acquisire gratificazioni aggiuntive che provengono dall’esterno. Questa è anche la principale ragione della maggiore frequenza, ampiezza e varietà delle attività extragiudiziarie dei magistrati italiani rispetto a quelle dei loro colleghi di altri paesi dell’Europa che hanno sistemi di reclutamento della magistratura simili al nostro ma in cui vigono serie valutazioni della professionalità ed in cui l’effettivo esercizio delle attività giudiziarie è precondizione per lo svolgimento della carriera.
Poiché gli incarichi extragiudiziari e l’assunzione di compiti non soggetti ad autorizzazione del CSM provengono da fonti esterne alla magistratura non credo di dover spendere molte parole per segnalare il grave vulnus che questo fenomeno crea all’indipendenza della magistratura ed alla sua immagine di imparzialità. Le sue dimensioni generano poi anche problemi di funzionalità perché essi, chi più chi meno, sottraggono energie lavorative ad un apparato giudiziario che evidenzia gravissimi ritardi nello svolgimento delle sue attività. Certo esiste spesso notevole differenza tra incarico ed incarico e non mi nascondo che alcuni di essi possono anche contribuire all’affinamento delle capacità professionali dei magistrati, come ad esempio il loro coinvolgimento in attività di docenza. Tuttavia anche in questi casi occorre avere misura e non consentire, ad esempio, impegni eccessivi quali quelli di autorizzare, come di recente ha fatto anche questo Consiglio, lo svolgimento di un intero corso universitario.
Non ignoro certo alcune positive iniziative dei passati Consigli per limitare gli incarichi extragiudiziari, con l’eliminazione degli incarichi arbitrali e la riduzione degli incarichi nella giustizia sportiva e nelle commissioni di concorso. Si tratta tuttavia di iniziative parziali che certo sono ben lungi dal tutelare adeguatamente i valori dell’indipendenza della magistratura, della sua immagine di imparzialità e della funzionalità dell’apparato giudiziario. Ritengo quindi altamente meritevole l’iniziativa già presa da questo Consiglio di voler riflettere con attenzione sull’intera materia degli incarichi extragiudiziari per darsi criteri decisori più consapevoli e rigorosi a difesa di quei valori. Ciò mi consente anche di circoscrivere il mio intervento alle considerazioni più generali sul fenomeno, per ritornare su esso in termini più analitici quando diverranno noti i risultati delle riflessioni che la quarta commissione si appresta a compiere.
Voglio tuttavia segnalare le preoccupanti continuità e connessioni tra incarichi extragiudiziari deliberati dal CSM e le attività extragiudiziarie di natura partigiana perché riducendo i primi, come è nel potere del Consiglio, si possono ridurre in una certa misura anche i secondi.
Tra gli aspetti disfunzionali del fenomeno delle attività extragiudiziarie dei magistrati occorre sottolinearne uno che più di altri appare inconciliabile con le caratteristiche tipiche di uno stato di tipo demo-liberale e con l’indipendenza della magistratura. Si tratta dell’alto livello di commistione che si è venuto sviluppando in Italia tra magistratura e classe politica, una commistione che non ha eguali in nessun altro paese a consolidata tradizione democratica. L’aspetto più visibile è costituito dalla crescente presenza di magistrati in attività che li portano ad operare a tempo pieno, direttamente e visibilmente, nell’area della politica partigiana. Fino agli anni ’70 tale fenomeno era molto limitato: in buona sostanza si riduceva alla presenza di due o tre magistrati in Parlamento la cui carriera giudiziaria rimaneva bloccata. Da allora il fenomeno è cresciuto costantemente per ragioni, su cui mi sono trattenuto nel mio intervento in Plenum del 13 novembre scorso relativo alla valutazioni di professionalità. Ne richiamo sommariamente due: a) la prima riguarda il fatto che il CSM, nel valutare la professionalità dei magistrati, non ritiene necessario, prendere in considerazione la loro produzione giudiziaria, il che consente di promuovere per “meriti giudiziari” anche magistrati che da tempo non svolgono funzioni giudiziarie; b) la seconda riguarda il fatto che all’inizio degli anni ’70 il CSM, cambiando il suo precedente orientamento, e nella frenesia di promuovere tutti, decise che il divieto di promuovere i pubblici dipendenti eletti in Parlamento previsto dall’art. 98 non si dovesse applicare ai magistrati perché questi non sono pubblici dipendenti. Gli è stato così subito possibile promuovere retroattivamente, “per meriti giudiziari”, fino ai vertici della carriera persino due magistrati parlamentari che non esercitavano le funzioni giudiziarie da oltre 23 anni e che, per ciò stesso, fino ad allora erano rimasti ai livelli più bassi della carriera (Oscar Luigi Scalfaro e Brunetto Bucciarelli Ducci). Con ciò stesso il CSM ha reso rese evidente a tutti i magistrati non solo che la carriera politica non impediva più, in nessun modo, il contemporaneo svolgimento della loro carriera giudiziaria, ma ha reso evidenti anche i vantaggi economici che ne potevano derivare ai magistrati che volessero intraprendere anche una carriera politica (tra l’altro, fino al 1993 era consentito il cumulo tra lo stipendio di magistrato e quello di parlamentare; ancor oggi è consentito il cumulo della liquidazione e della pensione).
Nelle elezioni generali del 1976 divennero così 12 i magistrati ad essere eletti in Parlamento, prevalentemente nelle liste dei due maggiori partiti, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. Nelle elezioni tenutesi tre anni dopo divennero 22 e un notissimo magistrato, che è stato anche presidente dell’ANMI, Adolfo Beria d’Argentine, così commentò questo fenomeno su “Il Corriere della Sera”del 28 aprile del l979: “la spiegazione più vera…sta nel fatto che i partiti hanno la sensazione più o meno giusta che ormai la magistratura sia una sede di potere reale e di potere pesante, spesso di potere brutale…e che quindi convenga avere con essa canali di comunicazione personalizzati”.
Nelle elezioni nazionali del 1996, ben 50 magistrati hanno partecipato alla competizione elettorale quali rappresentanti di vari partiti. 27 di loro sono stati eletti (10 senatori e 17 deputati) ed in maggioranza sono stati destinati a servire nelle commissioni giustizia di Camera e Senato. Altri due sono di recente stati eletti al Parlamento europeo. Nelle ultime elezioni nazionali sono stati eletti in Parlamento 14 magistrati ordinari. Negli ultimi dieci anni 2 magistrati sono stati eletti presidenti di regione (ed un altro è stato sconfitto per quella stessa posizione nelle ultime elezioni regionali). Nello stesso periodo si sono avuti diversi magistrati-ministri, magistrati-sottosegretari di Stato, sindaci di grandi e piccole città, magistrati eletti nelle assemblee regionali e comunali, assessori di varie branche dei governi locali. Vi sono poi magistrati Capi di gabinetto, capi di segreterie particolari di Ministri e sottosegretari di Stato, consulenti di commissioni parlamentari e di organizzazioni europee o internazionali, magistrati responsabili delle politiche giudiziarie di vari partiti. All’inizio degli anni ’90 un magistrato, già segretario generale dell’ANMI, è stato persino eletto segretario nazionale di un partito politico (il Partito Social Democratico). Aggiungo che non è facile elencare tutti gli incarichi in cui si rappresenta questa o quella parte politica anche per chi come me è da anni osservatore attento e del fenomeno. Ho solo di recente appreso, ad esempio, di due pubblici ministeri che sono al contempo anche assessori comunali. Non lo avrei mai potuto sapere se non fossi stato incaricato in VII commissione di una pratica relativa ad un’applicazione extradistrettuale che riguardava uno di essi.
Va subito aggiunto che la commistione che si è creata tra magistratura e classe politica è solo in minima parte resa evidente dal numero pur rilevante di magistrati che in via diretta e ufficiale sono divenuti rappresentanti di vari partiti nelle assemblee rappresentative nazionali o locali o anche quali componenti di organi dell’esecutivo ai vari livelli. In primo luogo perché il numero di magistrati che stabiliscono relazioni con i vari partiti politici per ottenere quelle appetibili posizioni è molto maggiore di quello di coloro che riescono ad ottenerle. In secondo luogo perché molte delle attività extragiudiziarie di minore rilevanza, e svolte a tempo parziale, sono ottenute con il patrocinio più o meno diretto di partiti o uomini politici e divengono -o comunque sono ricercate e percepite dai magistrati- come passi intermedi per acquisire la credibilità politica e l’appoggio partitico necessari per ottenere le posizioni di rappresentanza politica più gratificanti. E poi, forse che le modalità con cui vengono esercitate funzioni giudiziarie ampiamente discrezionali, soprattutto quelle requirenti, sono del tutto estranee al crearsi di quei collegamenti che poi conducono i magistrati alla politica attiva? Per comprendere la complessità delle conseguenze negative che la commistione tra magistratura e politica crea nel nostro Paese è anche opportuno ricordare che quando i magistrati terminano il loro impegno politico nella politica attiva, tornano a svolgere funzioni giudiziarie. E’ possibile o credibile che il magistrato ex-parlamentare o ex membro di governo non porti con sé nulla degli orientamenti di parte che ha praticato per anni? E’ possibile immaginare che il cittadino creda alla sua imparzialità? E che dire della credibilità di quei magistrati che svolgono contemporaneamente l’incarico di assessori comunali e di sostituti procuratori? Nel nostro Paese, affetto da stucchevole formalismo, la risposta ufficiale che si dà a questi quesiti è nella sostanza affermativa, tanto che si ritiene pienamente legittimo persino che un giudice ex parlamentare giudichi e condanni un parlamentare di un partito avverso a quello che lui ha rappresentato per anni (un caso emblematico di questo tipo è capitato di recente, nel novembre 1999 in Corte di Cassazione). Ciò che importa sottolineare è che la notizia non ha scandalizzato più di tanto. In quell’occasione non è stata messa in discussione la legittimazione di quel magistrato ex parlamentare a svolgere le funzioni di giudice, né ci si è posti, più in generale, il problema se l’immagine di indipendenza ed imparzialità, che è primaria fonte della legittimazione del ruolo giudiziario nelle democrazie liberali, non meriti una più adeguata protezione.
Per non essere equivocato nello stabilire una connessione tra incarichi extragiudiziari e carriere politiche non ho voluto certamente dire che non esistano altre vie con cui i magistrati si avvicinano ai vari partiti ed ottengono incarichi politici di parte elettivi e no. Tra coloro che hanno acquisito quegli incarichi vi sono, ad esempio, vari rappresentanti di vertice dell’ANMI ed ex componenti del CSM.
Non ignoro le obiezioni che sono state avanzate contro l’ipotesi di escludere i magistrati dall’elettorato passivo per le elezione nazionali locali ed europee né quelle che riguardano la loro esclusione da incarichi di governo ai vari livelli. A riguardo vorrei tuttavia ricordare i lavori della Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario nominata con decreto del Ministro Conso e presieduta dall’ex Presidente della Corte Costituzionale Ettore Gallo. Con ampia motivazione quella commissione, composta in maggioranza da magistrati, pervenne alla conclusione che non solo fosse opportuno evitare che i magistrati potessero ricoprire incarichi di chiara matrice politica quali quelli di deputato, senatore, consigliere regionale, consigliere provinciale o comunale, o rivestire incarichi di governo ai vari livelli, ma anche che sia pienamente legittimo prevedere con legge ordinaria l’incompatibilità tra quegli incarichi e la permanenza nell’ordine giudiziario (Documenti Giustizia, 1994, n. 5, pagg. 1106-1111).
So bene che negli anni successivi gli orientamenti di alcune proposte del governo ed alcune leggi ora in vigore sono andate in direzione opposta (mi riferisco alla legge sull’aumento dell’organico della magistratura, varata dal passato Governo, che prevede il reclutamento di 200 magistrati perché vengano destinati a svolgere funzioni non giudiziarie, incluse quelle di natura partitica). Tuttavia se veramente il CSM vuol essere tutore e vigile custode dell’indipendenza della magistratura, della sua immagine di imparzialità e della stessa funzionalità dell’apparato giudiziario deve a mio avviso rivedere le sue politiche con riferimento alla concessione delle autorizzazioni a svolgere gli incarichi extragiudiziari riducendone, per quanto consentito dalla legge, le dimensioni. Dovrebbe inoltre farsi carico di segnalare nella relazione sullo stato della giustizia prevista dall’articolo 28 del Regolamento interno l’esigenza di vietare per legge ai magistrati di assumere tutti le attività extragiudiziarie che li coinvolgano in attività di politica attiva in rappresentanza di partiti politici. La mia prolungata esperienza di ricerca ed i colloqui che nel corso degli anni ho avuto con moltissimi magistrati che lavorano negli uffici giudiziari mi ha peraltro reso consapevole dell’esistenza di un diffuso senso di disagio ed insofferenza nei confronti dell’assunzione di ruoli di politica attiva da parte di loro colleghi. Una iniziativa del CSM che in nome dell’indipendenza e dell’immagine di imparzialità della magistratura segnali l’esigenza di vietare a giudici e pubblici ministeri tali attività sarebbe, quindi, a mio avviso ben accolta anche dalla stragrande maggioranza dei magistrati.
Per quel che mi riguarda e nei limiti fissati dalla legge orienterò il mio voto in Consiglio a difesa di quei valori e della funzionalità dell’apparato giudiziario. Per poterlo fare chiedo che tutti gli incarichi extragiudiziari non vengano più incluse negli ordini del giorno c.d. “speciali” da approvare in blocco ma vengano invece singolarmente discussi e votati in sede plenaria.
Nel trattare delle attività non giudiziarie dei magistrati ho sin qui segnalato solo quegli aspetti che più direttamente confliggono con l’indipendenza dei magistrati e la funzionalità degli uffici giudiziari. Quelle attività tuttavia toccano anche altre questioni che sono di grande rilievo in democrazia, come la effettiva divisione dei poteri e l’efficace funzionamento dei pesi e contrappesi istituzionali. Sono questioni che solo molto parzialmente riguardano l’attività decisoria del CSM. Per quella parte in cui rilevano mi riservo di segnalarle di volta in volta nel motivare il mio voto.
Se mi è consentito vorrei concludere ricordando che la stessa magistratura associata ha sempre sostenuto di voler smantellare la tradizionale configurazione burocratica del suo assetto. Le attività non giudiziarie dei magistrati fanno, in larga misura, parte di quel retaggio.
In un mio precedente intervento ho evidenziato come l’effettuazione di seri vagli di professionalità sia condizione necessaria per garantire una reale indipendenza dei giudici e pubblici ministeri. Lo è anche l’eliminazione delle attività extragiudiziarie dei magistrati, seppur con limitate eccezioni per quanto concerne l’attività di docenza e la partecipazione a commissioni tecniche su temi di riforma giudiziaria. Se questo Consiglio adotterà criteri di grande rigore su entrambe le questioni dimostrerà anche di volersi svincolare nelle sue decisioni da una concezione dell’indipendenza troppo a lungo condizionata (permeata) da interessi corporativi che la sviliscono e la svuotavano di efficacia.