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Penalisti ignoranti e strapotere delle toghe

3 luglio 2003

Il Giornale, 3 luglio 2003

 La scorsa settimana gli avvocati penalisti hanno effettuato 5 giorni di astensione dalle undienze.  Quando lo scorso anno scioperarono i magistrati molti giornali se ne occuparono discutendo le ragioni, invero ambigue, di quello sciopero.  Numerosi furono anche i commenti degli uomini politici.  Scarso è stato l’interesse mostrato dalla stampa e dai politici per le ragioni degli avvocati. Un segno oltremodo evidente della enorme sproporzione tra il potere di contrattazione ed influenza che le due categorie, dei magistrati e degli avvocati, hanno nel nostro sistema politico e giornalistico, visto che in entrambi i casi vi è stato lo stesso danno dell’interruzione del normale funzionamento della giustizia.   Né si può dire che le ragioni del disinteresse sia dovuto allo scarso rilievo dei motivi che hanno indotto gli avvocati penalisti all’astensione.  Essi lamentano che la modifica dell’art. 111 della Costituzione,  introdotta per dare ai cittadini le garanzie di un giusto processo, non sia stata seguita dalle riforme legislative, ordinamentali e processuali, che sono necessarie a rendere quelle garanzie effettivamente operanti.   Riforme che riguardano la divisione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri (PM), i codici penali di merito e processuale, la effettiva difesa dei meno abbienti.

Per far comprendere ai lettori la rilevanza delle ragioni degli avvocati è utile ricordare i risultati di una ricerca condotta dall’Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari del CNR in tre diversi momenti: nel 1992, nel 1995 e nel 2000.  Ogni volta sono stati intervistati telefonicamente 1000 avvocati penalisti ed i risultati sono illustrati in un libro,“Processo penale e diritti della difesa”, pubblicato dell’editore Carocci lo scorso anno.  

Tra le molte, gravi, limitazioni dei diritti del cittadino nell’ambito processuale e della sua eguaglianza di fronte alla legge la maggioranza degli avvocati penalisti segnala: che i singoli PM esercitano una ampia discrezionalità nel definire le priorità nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine, anche sulla base di loro orientamenti ed aspirazioni personali; che a dispetto della legge i PM solo rarissimamente cercano prove a discarico dell’imputato, ed a volte addirittura le nascondono; che usano vari stratagemmi per prolungare le indagini oltre il termine consentito dalla legge; che spesso intimidiscono i testimoni per ottenere testimonianze favorevoli alle loro tesi accusatorie; che il giudice per le indagini preliminari tende ad accettare acriticamente le richieste che provengono dal suo collega PM; che lo stesso giudice di prima istanza non è imparziale (lo dice in varie forme il 50% circa degli intervistati) e anche in questa sede tende a favorire le tesi accusatorie del suo collega PM.

Mentre la dimensione di questi fenomeni nella elevata misura fornita dagli avvocati può essere messa in dubbio, ben difficile sarebbe sostenere che quei fenomeni siano frutto della loro fantasia e non corrispondano in misura più o meno ampia alla realtà del nostro processo penale.  I riscontri sono molteplici.  Faccio un solo esempio, tra i molti che potrei fare, con riferimento ad una delle segnalazioni più gravi fatte dagli avvocati, quella che i PM a volte -lo dice il 13,3% di loro- nascondano impunemente persino le prove a discarico:  nel 1998 è stato assolto in sede disciplinare  un PM che aveva tenuto nascoste al giudice del tribunale della libertà l’esistenza di decisive prove a discarico di un detenuto in carcerazione preventiva che è stato poi scarcerato solo molti mesi dopo.

Con quanto sin qui detto non voglio certamente affermare che le proposte di modifica ordinamentale e processuale suggerite dagli avvocati, pur ampiamente condivisibili, siano tutte sufficienti od efficaci.  Faccio un solo esempio con riferimento alla loro quasi unanime richiesta di dividere, anche in Italia, la carriera dei giudici da quella dei PM.   L’appartenenza a due diversi corpi professionali assicurerebbe la terzietà del giudice tra le parti processuali.  Eviterebbe cioè per il futuro quelle solidarietà processuali che derivano dall’appartenenza di giudici e PM allo stesso corpo e che operano a scapito della difesa.  Questa innovazione, comunque auspicabile, non sarebbe di per sé molto efficace.  La stessa maggioranza degli avvocati segnala l’ampia discrezionalità dei PM nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine. Non si capisce come si possa pensare di ridurre questi fenomeni, gravemente lesivi dei diritti dei cittadini, se non regolando e responsabilizzando i PM nell’esercizio di quelle funzioni, così come avviene negli altri paesi democratici.  Non certo con la sola divisione delle carriere.  Per giunta se ci si limitasse a questa sola innovazione ordinamentale, come si può ritenere  che una volta separati i circa 2000 magistrati che ora svolgono funzioni di PM dai circa 7000 che svolgono funzioni di giudice, questi ultimi di punto in bianco considererebbero i PM meno colleghi di prima pur seguitando ad appartenere entrambi allo stesso sindacato, a lavorare negli stessi uffici, ad avere in comune lo stesso CSM? 

Aggiungo due postille.

 La prima.  Se gli avvocati hanno ritenuto di rappresentare tanto drammaticamente la scarsa protezione dei diritti dei cittadini nel processo penale per telefono ad un anonimo intervistatore,  non potranno non farlo anche nell’illustrare ai loro clienti le incertezze e avversità processuali che li riguardano.  La fiducia dei cittadini nella giustizia e la stessa legittimazione della funzione del giudice viene anche per questa via  ulteriormente e diffusamente compromessa.

La seconda postilla.  Di recente sul Corriere della Sera il mio amico Mannheimer ha pubblicato un sondaggio che rivelava l’aggravarsi della sfiducia dei cittadini nella giustizia.  Ha suggerito che ciò sia dovuto agli attacchi che molti politici pubblicamente rivolgono ai magistrati.  Questa analisi non mi convince per il semplice fatto che in termini di consenso elettorale sarebbe certamente controproducente per i politici attaccare, ora come in passato, una istituzione che invece gode la fiducia dei cittadini.

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