Separare le carriere non basta
Il Giornale, 3 aprile 2004
Si conclude oggi lo sciopero degli avvocati aderenti alle Camere penali. La principale lagnanza degli avvocati riguarda il fatto che nei progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario di cui si discute in Parlamento non è prevista la divisione della carriera dei giudici da quella dei pubblici ministeri (pm). In alte parole, gli avvocati chiedono che i giudici ed i pm siano reclutati separatamente ed abbiano una diversa carriera. Lo vogliono non per ragioni corporative, ma per garantire al cittadino un giusto processo. A loro avviso, cioè, la divisione delle carriere porrebbe accusa e difesa sullo stesso piano di fronte al giudice. Il giudice diverrebbe finalmente imparziale perché verrebbe reciso quel legame di solidarietà di corpo tra giudici e pm. Un legame organico che può portare il giudice a privilegiare le aspettative del suo collega pm, cioè di colui che accusa, rispetto alle richieste avanzate dall’avvocato che difende i diritti di libertà del cittadino.
A mio avviso la richiesta degli avvocati è pienamente condivisibile e conforme agli ordinamenti di tutti gli altri paesi a consolidata democrazia che hanno un processo di tipo accusatorio. E’ inoltre conforme ad una delibera del Parlamento europeo del 1997 sul rispetto dei diritti umani secondo la quale “è anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine e quella del giudice al fine di assicurare un giusto processo”. Non riesco, tuttavia, a comprendere come i dirigenti delle Camere penali possano ritenere di poter raggiungere gli obiettivi da loro voluti con la sola divisione delle carriere. Che ciò non sia di per sé sufficiente risulta non solo dall’analisi delle soluzioni adottate negli altri paesi a consolidata democrazia, ma anche dalle stesse ricerche condotte, e già pubblicate, sulle esperienze professionali di un numero molto elevato di avvocati appartenenti alle Camere penali (G. Di Federico e M. Sapignoli, “Processo penale e diritti della difesa”, Carocci ed.). Mi riferisco a ricerche condotte intervistando in diversi periodi e per ben tre volte un campione di 1000 avvocati penalisti. Certamente una maggioranza, sempre crescente, di loro vuole una netta separazione delle carriere (si passa dal 78% del 1992 al 94,8% del 2000). L’assoluta maggioranza di loro, tuttavia indica anche molte deviazioni dalle condizioni minime di un giusto processo che non possono certo sanarsi con la sola divisione delle carriere. Con riferimento alle proprie esperienze professionali il 56,8% di loro sostiene che tra pm e pm esistono rilevanti differenze nella utilizzazione dei mezzi di indagine per casi del tutto simili; il 66,7% riferisce che i singoli pm usano criteri diversi nell’assumere le decisioni concernenti l’esercizio dell’azione penale e che in entrambi i casi le differenze, derivano dal desiderio di protagonismo o da orientamenti ideologici. L’assoluta maggioranza degli avvocati sostiene, inoltre, che è prevalente tra i giudici per le indagini preliminari l’orientamento ad assecondare supinamente le richieste del collega pm, ed il 53,2% di loro in varia forma segnala che tra pm e giudice per le indagini preliminari (cioè tra controllato e controllore) esistono comunicazioni informali sui casi da decidere che rendono di fatto inefficace il ruolo dell’avvocato difensore con grave pregiudizio dei diritti di difesa del cittadino. Molti altri dati di quella ricerca che assumono eguale significato potrebbero essere citati. Mi sembra tuttavia che quelli indicati siano sufficienti a mostrare come le disfunzioni che essi rivelano non possano essere sanate dalla sola divisione delle carriere di giudici e pm. In altre parole non si capisce, né i dirigenti delle Camere penali ce lo spiegano, in quale modo la divisione delle carriere possa di per sé sanare o anche solo ridurre quei fenomeni che gli avvocati hanno indicato nelle interviste e che chiaramente minano alla base il giusto processo. Le esperienze degli altri paesi democratici dimostrano che la divisione delle carriere di per sé ha un significato poco più che simbolico se non viene accompagnata da innovazioni volte a responsabilizzare e rendere trasparenti le attività del pm vincolandole a predefinite priorità nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine. Anche se gli avvocati ottenessero la divisione delle carriere, infatti, i pm che lo vogliono potranno seguitare ad operare, nella fase delle indagini, con tutta la libertà e discrezionalità di un poliziotto pienamente indipendente ed irresponsabile. Pubblici ministeri e giudici seguiteranno ad operare congiuntamente nella stessa associazione sindacale e nelle sue correnti, seguiteranno a svolgere le loro funzioni l’uno accanto all’altro negli stessi palazzi di giustizia e ad eleggere lo stesso CSM. In tali condizioni non credo proprio si possa realisticamente immaginare che tutto d’un tratto i circa 7.000 magistrati che attualmente esercitano le funzioni giudicanti non percepiranno più come colleghi , o considereranno meno credibili, i circa 2.000 magistrati che rimarrebbero a svolgere funzioni requirenti solo perché a partire da un certo momento non potranno più passare da una funzione all’altra ed i concorsi per le due funzioni verranno separati. Per quanto desiderabile possa essere la divisione delle carriere, sul piano operativo certamente non potrebbe da sola produrre rilevanti innovazioni sui comportamenti giudiziari. Io credo che di questo i dirigenti delle Camere penali dovrebbero cominciare a tenere conto.