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“La collocazione del p.m. nell’esecutivo non è un attentato alla democrazia”

29 luglio 2008

IL RIFORMISTA, 29 luglio 2008 

Non avete la divisione dei poteri in Italia? Più volte mi sono sentito rivolgere questa domanda nel corso di seminari tenuti nei paesi di tradizione giuridica anglosassone dopo aver detto che da noi giudici e pubblici ministeri appartengono alla stessa carriera e che il pubblico ministero è pienamente indipendente.  La collocazione del pubblico ministero nell’ambito dell’esecutivo non è però solo del mondo anglosassone.  Anche nei paesi dell’Europa continentale il PM è quasi sempre collocato nell’ambito del potere esecutivo o comunque collegato, in varie forme, da vincoli gerarchici al Ministro della giustizia (Germania, Austria, Danimarca, Svezia, Olanda Belgio, Spagna, e così via). Anche in Francia dove giudici e pubblici ministeri appartengono, come in Italia, allo stesso corpo, i pubblici ministeri sono comunque inquadrati in un assetto gerarchico che ha il ministro della giustizia al suo vertice (e i procuratori generali sono tutti nominati dal Consiglio dei ministri). 

            La ragione di questa generale convergenza istituzionale tra i paesi a consolidata democrazia risiede nel fatto che il pubblico ministero compie e non può non compiere scelte di natura discrezionale nel decidere quali mezzi di indagine utilizzare nei singoli casi e se promuovere o meno l’azione penale.  Compie cioè quotidianamente scelte di politica criminale che incidono sull’efficacia repressiva dei fenomeni criminali e sulla tutela dei diritti del cittadino nell’ambito processuale.  Come per tutte le altre politiche pubbliche  (nei settori della sanità, della previdenza, del lavoro, ecc.) si ritiene quindi che anche per le politiche criminali  vi debba essere una responsabilità politica del governo e una attenta supervisione delle attività che vengono compiute in questo settore.  Tra i paesi a consolidata tradizione democratica l’Italia è l’unico paese con un pubblico ministero che da un canto è del tutto svincolato dal processo democratico (nessuno è responsabile delle sue scelte discrezionali),   dall’altro è organizzato nell’ambito di una debolissima struttura gerarchica priva di un vertice organizzativo di livello nazionale.

            I nostri padri costituenti decisero di inserire in Costituzione il principio di obbligatorietà dell’azione penale perchè ritenevano possibile che il PM potesse perseguire efficacemente tutti i reati. Imponendo formalmente ai pubblici ministeri di perseguire tutti i reati si veniva a sottrarre loro, così ragionarono i costituenti, qualsiasi forma di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale.  Non era quindi necessario creare un vertice organizzativo politicamente responsabile della loro attività.  Il nostro PM poteva quindi essere pienamente indipendente.  Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero erano cioè, nella visione del nostro Costituente, due facce della stessa medaglia.  L’una non si giustificava senza l’altra.

            Il riconoscimento -ormai diffuso- della inapplicabilità del principio di obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe anche comportare, seguendo la stessa logica istituzionale del nostro costituente, la ridefinizione dello status di indipendenza del PM e della sua struttura organizzativa.  Non si tratta però, occorre subito aggiungere, di una necessità che deriva solo, e neppure principalmente, dall’esigenza di rivedere le simmetrie istituzionali immaginate dal nostro costituente.  Ben più importante è la constatazione (tardiva) che il mantenimento del binomio obbligatorietà-indipendenza comporta prezzi altissimi per la tutela di valori costituzionalmente protetti in tutti i paesi democratici, incluso il nostro.  In un recente articolo, pubblicato su questo giornale il primo luglio scorso, ho sinteticamente mostrato come l’inapplicabile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, posta nelle mani di pubblici ministeri assolutamente indipendenti e non responsabili per le decisioni discrezionali che assumono nella scelta dei mezzi di indagine e nell’iniziativa penale, pregiudichi la tutela di valori di grande rilievo in democrazia.  Tra l’altro, perché impedisce di tutelare efficacemente l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la protezione dei loro diritti civili nell’ambito processuale, perchè sottrae al controllo democratico una consistente parte delle scelte di politica criminale e rende ingestibili i tempi del processo penale. 

Tuttavia, se da un canto vi è l’esigenza di rivedere la collocazione istituzionale del nostro PM, dall’altro occorre tener presente che non vi sono soluzioni facili per configurarla e gestirla.  Si tratta, infatti di bilanciare a livello operativo due aspetti del ruolo del PM che sono tra loro confliggenti, ma entrambi di grande rilievo.  Da un lato la consapevolezza che il PM partecipa alla formulazione e attuazione delle politiche criminali impone l’adozione di meccanismi che ne regolino e responsabilizzino l’azione nell’ambito del processo democratico.  Dall’altro l’esigenza di garantire che il PM operi con criteri uniformi per tutti i cittadini impone di evitare un collegamento troppo stretto col le istituzioni politiche che ne dirigono e supervisionano l’attività, onde evitare che le maggioranze politiche del momento possano influenzare la sua condotta (attiva od omissiva) a fini di parte.   Le riforme e/o i numerosi dibattiti riguardanti il ruolo del PM che si sono verificati negli altri paesi democratici ove il PM viene responsabilizzato nell’ambito del processo democratico (USA, Inghilterra Olanda, Spagna, Portogallo, Canadà, e altri ancora) possono tuttavia fornire utili indicazioni per le soluzioni da adottare in Italia.

            La revisione dell’assetto del PM ed il suo collegamento istituzionale ad un organo che sia polticamente responsabile delle politiche pubbliche nazionali nel settore criminale assume, peraltro, una notevole e crescente valenza anche sul piano internazionale.  Già molti anni fa un nostro ministro della giustizia,  Tommaso Morlino, mi diceva che non amava andare alle riunioni dei ministri della giustizia della Comunità europea.  Gli altri ministri, mi diceva, parlano di quali priorità occorrerebbe adottare per contrastare i fenomeni criminali di ordine transnazionale.  E io che gli dico?  Che in Italia io non ho voce in capitolo perché le decisoni sulle priorità dei crimini da perseguire sono assunte dai pubblici ministeri in maniera del tutto indipendente? Per giunta in maniera spesso differente da procura a procura ed anche da PM a PM all’interno delle singole procure della Repubblica?

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