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Se i magistrati sono dappertutto

8 gennaio 2009

Articolo apparso su “l’Opinione”

Nel convegno sulla giustizia promosso alla fine di ottobre dal Partito Democratico il programma di riforme del settore è stato presentato da quattro magistrati parlamentari: gli On. Finocchiaro, Tenaglia, Ferranti e Casson. Nel suo discorso al convegno l’On. Veltroni ha affermato solennemente che lui non avrebbe mai proposto o fatto riforme sulla giustizia “contro i magistrati”. C’era bisogno di dirlo?

Alcuni giorni fa il Ministro della giustizia Alfano ha ricevuto una delegazione del Partito democratico per discutere delle riforme della giustizia. La delegazione del Partito Democratico era composta da tre magistrati parlamentari: Il Ministro ombra della giustizia, già componente del CSM, On. Tenaglia e gli On. Ferranti e Casson. Il quotidiano “Libero” ci ha informati che la cosa ha deluso il Presidente Berlusconi e che “un fedelissimo del Cavaliere” ha commentato: “tanto valeva che si presentasse con i vertici dell’Associazione nazionale magistrati”. Se si può convenire che la composizione della delegazione del PD non fosse di buon auspicio per le riforme sulla giustizia. non si può però tacere che neppure quella ministeriale era molto equilibrata e bene auspicante, visto che anche il Ministro Alfano era affiancato da “esperti” del suo ministero che erano anch’essi tutti magistrati. Tra essi anche il magistrato-sottosegretario alla Giustizia, On. Caliendo leader di lungo corso dell’Associazione nazionale magistrati, ed ex componente del CSM. Chi avesse osservato dall’esterno l’incontro tra le due delegazioni avrebbe certamente ed a buon diritto potuto osservare: “ma che ci fa il Ministro Alfano in una riunione di rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati?”.

Sembra una battuta, ma purtroppo essa rappresenta in modo molto parziale un fenomeno ben più ampio e complesso, che da un canto agisce come efficiente freno alle riforme nel settore giudiziario e dall’altro crea una commistione tra classe politica e magistratura non certo compatibile con una adeguata protezione della indipendenza. I magistrati sono infatti da sempre presenti in posizioni di grande influenza in tutti i gangli istituzionali e partitici in cui le riforme della giustizia vengono elaborate e decise: non solo sono la stragrande maggioranza dei componenti del CSM, ma sono presenti come rappresentati di vari partiti politici in Parlamento e nelle commissioni giustizia della Camera e del Senato, nell’esecutivo nazionale e nei governi regionali e locali, presso la Presidenza della Repubblica e presso la Presidenza del Consiglio, presso la Corte Costituzionale (ove operano circa 30 magistrati come assistenti di studio di tutti i giudici costituzionali). Presso il ministero della Giustizia, poi, i magistrati sono circa 100 ed occupano da sempre tutte le posizioni direttive alte medie e basse, incluse quelle di grande rilievo politico come il gabinetto del Ministro e l’ufficio legislativo. A riguardo va anche precisato che, a differenza degli altri paesi democratici (come Francia, Germania, Austria, ecc.) in Italia i magistrati ministeriali non dipendono dal loro Ministro ma bensì interamente dal CSM per tutto quel che concerne il loro status (cioè le loro aspirazioni per quanto concerne promozioni, disciplina, future destinazioni a posizioni e sedi giudiziarie gradite).

Tra i numerosi magistrati che occupano posizioni di influenza sulle decisioni che riguardano l’assetto giudiziario spesso si creano veloci cortocircuiti che hanno sinora consentito loro di prevenire, indirizzare, e rendere inoperanti decisioni che ledono i loro interessi corporativi. Si tratta di fenomeni che alterano gravemente il corretto funzionamento dei pesi e contrappesi istituzionali e nella sostanza vanificano, nel settore dell’ordinamento giudiziario, le garanzie del corretto, equilibrato funzionamento delle istituzioni che la divisione dei poteri dovrebbe assicurare.

Molte sono le proposte di riforma della giustizia che da mesi vengono fatte dal Presidente del Consiglio, dal Ministro della giustizia, da rappresentati della maggioranza e dell’opposizione. Nessuna di esse, tuttavia, si è posta il problema di evitare le disfunzioni generate dalla pervasiva presenza dei magistrati in posizioni di grande influenza nell’ambito di tutti e tre i poteri della Stato, né il vistoso problema della commistione tra classe politica e magistratura che ne deriva. Fa eccezione solo la mozione presentata al Parlamento alcuni mesi fa dalla sparuta quanto battagliera pattuglia radicale eletta nelle liste del Partito democratico, mozione con la quale si propone di vietare tutte le attività extragiudiziarie dei magistrati. E’ una riforma che, a differenza di altre, può essere fatta con legge ordinaria.

Due postille. La prima: è solo naturale che chi occupa posizioni di potere o di rilevante influenza usi questi strumenti per proteggere i propri interessi corporativi, magari convincendosi anche di fare l’interesse generale. Se finora gli interessi corporativi della magistratura hanno potuto dominare le scelte in materia di ordinamento giudiziario non è certo colpa dei magistrati ma di chi ha consentito che quel fenomeno si verificasse e si espandesse.

La seconda postilla. Occorre ricordare che la dominante influenza degli interessi corporativi della magistratura in materia di ordinamento giudiziario non è solo supportata dalle posizioni istituzionali e di rappresentanza partitica che essi occupano. L’irresponsabile discrezionalità di cui i pubblici ministeri godono nella conduzione delle indagini e nell’esercizio dell’azione penale, gli effetti destabilizzanti che ciò ricorrentemente crea nelle istituzioni, certamente dà alle opinioni e richieste dei magistrati particolare autorevolezza agli occhi della casse politica.

Giuseppe Di Federico

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