Solo in Italia magistrati inamovibili

15 marzo 2009 Commenti chiusi

Pubblicato su L’Opinione

Da tempo si discute anche sui giornali ed in TV delle gravi difficoltà in cui versano quei numerosi tribunali e procure della Repubblica che operano con un organico fortemente ridotto perché in sedi non gradite ai magistrati. Sono difficoltà che derivano dall’ampiezza che da noi ha assunto il principio dell’inamovibilità dei magistrati. Un ampiezza che a sua volta deriva da una evoluzione del nostro ordinamento che ha visto progressivamente prevalere un concetto di indipendenza che si identifica con gli interessi corporativi dei magistrati. A pagarne il prezzo sono l’efficienza dell’apparato giudiziario sotto numerosi aspetti. Per verificare queste affermazioni, seppur solo con riferimento alle difficoltà che si incontrano nel destinare magistrati a sedi non gradite, cominciamo col domandarci come mai queste disfunzioni non si verificano in altri paesi dell’Europa continentale che hanno magistrature burocratiche simili alla nostra.

Non possono verificarsi negli uffici di procura perché negli altri paesi i pubblici ministeri non sono inamovibili (non in Francia, Austria, Germania, Olanda, e così via). tale prerogativa riguarda, cioè, solo chi esercita funzioni giudicanti.

Persino l’inamovibilità dei giudici non è sempre assoluta, anche se sempre rigorosamente regolata. In Germania, ad esempio, si viene nominati “giudici a vita”, divenendo quindi inamovibili, solo dopo 3 o 5 anni di esercizio delle funzioni giudiziarie (ciò consente ai giovani magistrati di maturare esperienze operative diversificate). In tutti gli altri paesi europei a consolidata democrazia, inoltre, le promozioni comportano sempre una interruzione dell’inamovibilità ed una destinazione a funzioni ed anche a sedi differenti da quelle precedenti. Ho fatto l’esempio della Germania perché ha un assetto per alcuni versi simile a quello esistente anche da noi fino agli anni 60’, quando le destinazioni d’ufficio alle sedi scoperte erano sempre possibili e la mobilità tra gli uffici era alquanto elevata soprattutto nei primi 5 anni di attività giudiziaria: l’inamovibilità si acquisiva solo con la nomina a magistrato di tribunale (allora dopo 5 anni dall’ingresso in magistratura) e per ottenere quella promozione i magistrati dovevano svolgere le loro funzioni giudiziarie presso le sedi di pretura per almeno due anni. Dopo due anni dall’ingresso in magistratura giudici e pubblici ministeri, inoltre, dovevano sostenere un esame scritto ed orale (esame da “aggiunto giudiziario”) a seguito del quale potevano essere assegnati d’ufficio ad altra sede. Quando ottenevano una promozione (a magistrato di appello, di cassazione ecc.) dovevano di necessità essere destinati ad un altro incarico giudiziario che fosse corrispondente alla loro nuova qualifica, Nel loro insieme questi meccanismi ordinamentali generavano mobilità ed evitavano, tra l’altro, che rimanessero scoperte le sedi non gradite. Questi meccanismi, tuttavia sono stati tutti cancellati nel corso degli ultimi 40 anni o a seguito di interventi legislativi richiesti dal sindacato dei magistrati in nome dell’indipendenza, oppure da prassi decisionali del CSM adottate allo stesso fine.

E’ stato abolito l’esame “da aggiunto” nel 1970. Le nuove leggi sulle promozioni approvate a partire dal 1966, prevedevano sì seri vagli di professionalità, ma consentivano (solo in Italia) di promuovere i magistrati oltre il numero dei posti vacanti disponibili ai livelli superiori della giurisdizione pur trattenendoli a svolgere funzioni giudiziarie ai livelli più bassi. Da allora, e per 40 anni, il CSM, con rarissime eccezioni, ha promosso con valutazioni altamente laudative tutti i magistrati al compimento della minima anzianità prevista per il passaggio da una qualifica all’altra, fino al vertice della carriera (e dello stipendio). Persino i magistrati che per moltissimi anni non svolgono funzioni giudiziarie (ad esempio vengono regolarmente promossi “per merito” i magistrati che siedono in Parlamento). Un’evoluzione che non deve sorprendere più di tanto se si tiene conto della circostanza che due terzi dei componenti elettivi del CSM sono di fatto rappresentanti delle varie correnti del sindacato della magistratura.

Due le conseguenze (per quel che qui ci interessa):

a) il numero dei magistrati collocati ai livelli superiori della carriera, ma trattenuti a svolgere le funzioni ai livelli più bassi, è progressivamente divenuto di gran lunga il più numeroso.

b) non essendovi più corrispondenza tra momento della promozione e l’obbligatorio trasferimento a diverse funzioni, si è di conseguenza anche dilatato l’ambito di applicazione del principio di inamovibilità sino a coprire l’intero periodo della permanenza in servizio. In altre parole i magistrati, se lo vogliono, possono rimanere nella sede di prima destinazione anche per i successivi 40/45 anni, cioè sino al pensionamento.

Alle sedi sgradite, cioè, possono essere destinati obbligatoriamente solo i magistrati al termine del loro tirocinio iniziale (che dura 18 mesi). Da molti anni queste sedi sono quindi composte quasi esclusivamente da magistrati di prima nomina, magistrati che si trasferiscono poi appena possibile lasciando il posto a nuove “reclute”. Per giunta senza che il CSM assicuri che vi sia corrispondenza temporale tra i trasferimenti e l’arrivo delle nuove leve. Si tratta cioè di sedi dove si concentrano magistrati di limitata esperienza, che soffrono di un notevole tasso di avvicendamento e dove la discordanza tra momento dei trasferimenti ed arrivo dei nuovi magistrati destinati di ufficio crea prolungati vuoti di organico.

Quali i rimedi?. Si è da anni provveduto a fissare per legge incentivi economici ed altri benefici per i magistrati che chiedono di trasferirsi in sedi non desiderate. Finora senza risultati apprezzabili. . Di recente, per iniziativa del ministro Alfano, gli incentivi economici sono stati notevolmente elevati: oltre allo stipendio già percepito ben 2.600 euro netti aggiuntivi per un periodo di quattro anni (in tutto più di 120.000 euro). Vedremo se si tratta di misura risolutiva. Rimane il fatto che si siano dovute adottare norme emergenziali ed esborsi di pubblico danaro aggiuntivi per ottenere ciò che in altri Paesi si ottiene senza di essi. Non sarebbe più opportuno ristabilire finalmente anche da noi un più adeguato equilibrio tra le garanzie di indipendenza ed inamovibilità da un canto ed esigenze di funzionalità dell’apparato giudiziario dall’altro?. Aggiungo due postille.

Prima postilla: neppure l’abolizione di fatto della carriera, fortemente voluta dai magistrati, sembra sia riuscita a cancellare del tutto una delle caratteristiche dei corpi burocratici, ove si entra in carriera per concorso e vi si rimane per l’intera vita lavorativa, cioè quella di primeggiare rispetto ai colleghi. L’unica forma di visibile riconoscimento rimasta è quella della nomina agli uffici direttivi. Per questi incarichi gli aspiranti non sono mai mancati, neppure per quelle sedi sgradite per le quali è impossibile trovare aspiranti per le posizioni di “semplice” giudice o sostituto procuratore.

Seconda postilla: E’ sicuro il Ministro Alfano che i benefici economici previsti per i magistrati che “volontariamente” si fanno trasferire nelle sedi sgradite non abbiano conseguenze impreviste?. Alcune le ha già anticipate sul Corriere della Sera il Presidente del sindacato della magistratura, il Dott. Palamara, domandando se sia possibile dare rilevanti compensi aggiuntivi a chi si trasferisce e non anche ai magistrati che già svolgono le loro funzioni nelle sedi sgradite.

Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero

1 febbraio 2009 Commenti chiusi

*Questo scritto e stato pubblicato dalla rivista Giurisprudenza Italiana (febbraio 2009). Riproduce, con modifiche solo formali, una relazione  presentata al Convegno internazionale su  “Obbligatorietà dell’azione penale nell’Italia del 2008 tenutosi a Roma il 29-30 settembre 2008 su iniziativa del Partito Radicale con finanziamento del Parlamento Europeo.  

Indice

I.                    L’indipendenza e responsabilità del pubblico ministero italiano in prospettiva comparata.

II.                 Conseguenze disfunzionali generate dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.

III.               Indipendenza e responsabilità del pubblico ministero nei paesi democratici.

IV.              Note  conclusive.

 

 

I. L’indipendenza e responsabilità del Pubblico ministero italiano in prospettiva comparata[1].

 

I poteri del pubblico ministero italiano e l’assetto istituzionale nel quale opera hanno nel loro insieme caratteristiche uniche, senza eguali nel panorama dei paesi democratici.  Caratteristiche tutte rivolte a potenziare le condizioni di indipendenza del pubblico ministero e a depotenziare quelle della sua responsabilità.

Si tratta nel suo complesso di un assetto operativo che genera non poche disfunzioni sia sul piano del rendimento del “servizio giustizia” sia sul piano della protezione di valori che sono di grande rilievo in democrazia, quali: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la protezione dei diritti civili nell’ambito del processo penale, il controllo democratico delle politiche criminali.

 

Ricordo brevemente le principali caratteristiche strutturali e funzionali  del nostro pubblico ministero che nell’insieme lo differenziano molto da quelli degli altri paesi a consolidata democrazia.

1) Pubblici ministeri e giudici appartengono allo stesso ordine. Al pari dei giudici godono delle stesse garanzie di piena indipendenza esterna. A differenza di quanto avviene, con varie modalità, in altri paesi a consolidata democrazia, nessuna istituzione esterna può dare istruzioni al pubblico ministero su come svolgere le sue attività e quali priorità seguire nell’uso dei mezzi di indagine e nell’esercizio dell’azione penale. Nessuna istituzione esterna può supervisionare lo svolgimento delle sue attività.  

2)  Tutte le decisioni relative allo status del pubblico ministero, dal reclutamento fino alla cessazione dal servizio, sono assunte in via esclusiva da un Consiglio superiore della magistratura (CSM) composto in stragrande maggioranza da rappresentanti eletti congiuntamente da giudici e pubblici ministeri.  Nessuno dei Consigli superiori in cui sono rappresentati giudici e pubblici ministeri (Francia, Belgio, Romania) esercita poteri paragonabili a quello italiano nel decidere sullo status del pubblico ministero.  Anche in quei paesi il ministro della giustizia svolge un rilevante ruolo nelle decisioni in materia di status dei pubblici ministeri, cioè valutazioni di professionalità, disciplina, trasferimenti, nomine a uffici direttivi[2].

3)  A differenza degli altri paesi democratici non esiste una struttura gerarchica unitaria di livello nazionale che possa coordinare le indagini su tutto il territorio. Anche in Portogallo ove esiste un Consiglio Superiore del Pubblico ministero l’organizzazione del pubblico ministero è unitaria e opera nell’ambito di una struttura gerarchica al cui vertice è collocato un Procuratore generale che viene nominato per sei anni (ed eventualmente revocato) dal Presidente della Repubblica su indicazione del Governo[3]. In Italia, salvo casi assolutamente eccezionali previsti dalla legge, ma non utilizzati, le collaborazioni tra gli uffici del pubblico ministero possono avvenire solo su base volontaria.   

4) I pubblici ministeri italiani godono di un regime di ampia indipendenza anche all’interno degli uffici cui appartengono. Certo, a livello dei singoli uffici di procura vi è formalmente una struttura gerarchica.  Di fatto però i poteri di direzione e supervisione dei capi degli uffici vengono severamente limitati da alcune leggi, e più ancora dagli orientamenti del sindacato della magistratura e dalle regole molto analitiche di ordine generale che da molti anni sono fissate dal CSM per disciplinare il funzionamento interno degli uffici del pubblico ministero:  regole per la distribuzione del lavoro, per le avocazioni, per le sostituzioni nei casi di impedimento e moltissimi altri aspetti ancora. Non a caso si è sviluppato un marcato processo di personalizzazione delle funzioni del pubblico ministero quasi che anche per lui valesse il principio del giudice naturale precostituito per legge.  Di fatto, cosa che ricorrentemente avviene, ciascun sostituto procuratore può richiedere in vario modo l’intervento del CSM per ogni decisione del suo capo ufficio che sia in contrasto con i piani organizzativi prefissati o con la sua indipendenza nel gestire i casi che gli sono assegnati (l’abolizione del comma 3 dell’art. 7-ter dell’Ordinamento giudiziario non ha fatto cessare l’orientamento del CSM a regolare la materia[4]).  

Nel processo di valutazione della professionalità e rendimento dei sostituti i pareri dei capi ufficio hanno di fatto poco rilievo poiché quelle valutazioni sono sostanzialmente nelle mani di organi rappresentativi composti in maggioranza da magistrati eletti dai colleghi sia a livello distrettuale (i consigli giudiziari) che nazionale (il CSM).

5)  A differenza di quanto avviene negli altri paesi democratici che hanno un assetto della magistratura simile al nostro (Germania, Francia, Austria, Olanda,  e tanti altri ancora) da oltre 40 anni i nostri pubblici ministeri non sono più soggetti a reali, sostantive valutazioni di professionalità, che sono invece cadenzate sulla base del mero decorrere della loro anzianità di servizio. Certo, per tutto questo periodo le leggi formalmente prevedevano seri vagli di professionalità e ricorrenti valutazioni nel corso dei 40/45 anni di permanenza in servizio.  L’interpretazione di quelle leggi data dal CSM è stata tuttavia tanto compiacente nei confronti delle aspettative dei propri elettori che di fatto tutti i pubblici ministeri, raggiungono il più alto livello della carriera (salvo i casi di gravi violazioni disciplinari o di sanzioni penali[5]).

A differenza di quanto avviene in altri paesi dell’Europa continentale che hanno sistemi di reclutamento burocratico simili al nostro, e di come avveniva anche in Italia fino a metà degli anni 1960, le valutazioni di professionalità non prevedono che i magistrati di volta in volta valutati positivamente vengano differenziati secondo una graduatoria di merito.

6) Particolari strumenti sono stati predisposti anche per tutelare l’indipendenza del pubblico ministero sotto il profilo del trattamento economico.  Onde evitare che i pubblici ministeri debbano ricorrentemente instaurare trattative col potere esecutivo per la determinazione e adeguamento del loro trattamento economico, la legge prevede un vantaggioso meccanismo automatico di adeguamento triennale.  E’ uno strumento che non ha eguali in altri paesi. Va aggiunto che i pubblici ministeri italiani hanno il trattamento economico più elevato del pubblico impiego ed anche il più elevato tra i magistrati dell’Europa continentale.  Soprattutto perché, a differenza dei loro colleghi europei, che subiscono severi e selettivi vagli di professionalità e solo in pochi raggiungono i vertici della carriera, i nostri magistrati invece raggiungono tutti -come abbiamo già detto- il massimo livello della carriera, della retribuzione, della pensione e del trattamento di quiescenza[6]

7) I pubblici ministeri, proprio come i giudici, nel corso della loro lunga carriera non possono essere trasferiti da un ufficio all’altro, salvo che non siano loro stessi a farne richiesta.

8) Nel condurre le indagini, la polizia deve operare chiedendo istruzioni al pubblico ministero e seguendo in via esclusiva e vincolante le sue direttive  (art. 347 cpp).  Nella fase investigativa, cioè, il ruolo del pubblico ministero si differenzia da quello di un funzionario di polizia solo perchè non risponde ad alcuno delle decisioni investigative che assume in piena indipendenza.

9) Il pubblico ministero può di sua propria sponte iniziare e condurre attività investigative di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino quando ritiene che sia stato commesso un crimine (art. 330 cpp).

 

Buona parte delle caratteristiche del pubblico ministero sin qui considerate si collegano direttamente o comunque vengono giustificate con riferimento, più o meno diretto, alla norma costituzionale (art. 112) la quale impone ai pubblici ministeri di perseguire tutti i crimini che vengono commessi.  Un obbligo che non può essere fattualmente realizzato in nessun paese e che anche da noi è di fatto caratterizzato da ampi margini di discrezionalità (come vedremo più innanzi).  Tuttavia poiché si tratta di un obbligo che formalmente è vincolante, esso porta con sé due implicazioni di grande rilievo: 

a) lo Stato ha l’obbligo di finanziare tutte le spese che i pubblici ministeri considerano necessarie per condurre le attività investigative.  Ciò in quanto qualsiasi limite relativo ai mezzi di indagine da utilizzare e sui criteri di spesa costituirebbe un limite all’osservanza del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale;

b) i pubblici ministeri non portano nessuna responsabilità per ogni e qualsiasi iniziativa investigativa e azione penale cui danno inizio, anche se  mesi o anni dopo le loro iniziative risultano del tutto infondate e ingiustificate. In ogni caso essi possono pretendere, con immancabile successo, che il loro sospetto che un crimine fosse stato commesso imponeva comunque loro di agire.  In altre parole l’obbligatorietà dell’azione penale trasforma ipso jure qualsiasi loro decisione discrezionale in materia di indagini e di azione penale in un “atto dovuto”, escludendoli da ogni forma di responsabilità (come valutazioni negative sulla loro professionalità, responsabilità per spese di indagini inutili e costose, danni di ordine sociale e/o economico, e/o familiare, e/o politico, e/o di salute causati a cittadini innocenti, e così via).

 

In nessun altro paese democratico, quindi, l’indipendenza del pubblico ministero è tanto ampia e la sua responsabilità tanto limitata quanto in Italia. I parziali tentativi sinora fatti di modificare alcune delle caratteristiche del pubblico ministero italiano fin qui sommariamente descritte hanno sempre incontrato la ferma opposizione del sindacato della magistratura e delle sue rappresentanze che nel CSM costituiscono la maggioranza.  Una opposizione che sinora ha avuto successo per il rilevante potere contrattuale che da vari decenni la magistratura organizzata ha nei confronti della classe politica, un fenomeno sulle cui cause non posso qui intrattenermi[7]  Qualsiasi innovazione volta ad introdurre forme di responsabilizzazione del pubblico ministero viene considerata una minaccia per l’efficiente difesa della legalità e per il corretto funzionamento dell’assetto democratico.  Se quegli stessi criteri di assetto e funzionamento del pubblico ministero italiano dovessero essere utilizzati per valutare i livelli di protezione della legalità degli altri paesi a consolidata democrazia, nessuno di loro supererebbe l’esame di legalità (non la Francia, non l’Inghilterra, non l’Olanda, non la Germania, non l’Austria, non il Belgio, non gli Stati Uniti, e così via).  

L’indicazione fornita delle condizioni di elevata indipendenza e limitatissima responsabilità in cui opera il nostro pubblico ministero non sembri eccessiva.  Che anzi non rappresenta appieno quanto avviene in realtà.  A scopo illustrativo faccio riferimento solo a tre casi emblematici descrivendoli sommariamente per la parte che qui interessa.

 

Primo esempio.  Il procuratore capo di una piccola pretura del Sud (Palmi) di sua iniziativa decise di svolgere indagini sul rapporto tra criminalità organizzata e massoneria.  Due anni dopo decise di estendere le indagini anche ad un partito politico ed ai suoi dirigenti. Le indagini si svolsero su tutto il territorio nazionale con appendici perfino all’estero.  Il materiale raccolto assunse proporzioni enormi. Dietro pressioni dello stesso CSM il Ministro della giustizia -per non essere accusato di intralciare le indagini- fu costretto ad affittare un grande capannone che contenesse tutto quel materiale e ad assumere tecnici informatici che ne rendessero agevoli e veloci le consultazioni di volta in volta necessarie.  Il procuratore in questione fu celebrato per l’indipendenza con cui perseguiva i poteri forti, ed il CSM anche e soprattutto per questo lo chiamò poi a dirigere una delle più grandi ed ambite procure della Repubblica (quella di Napoli).  Le risultanze delle indagini da lui promosse pervennero finalmente, dopo ben 9 anni dal loro inizio, al vaglio del giudice di primo grado che su parere conforme del pubblico ministero non solo archiviò l’inchiesta, non solo affermò che da quella monumentale documentazione non risultava alcun reato, ma affermò anche che non era stato neppure possibile individuare le ragioni che potessero giustificare le indagini compiute.  Nonostante gli ingentissimi, quanto ingiustificati, costi in termini di risorse umane e finanziarie effettuate nel corso dei 9 anni, nonostante risultasse da un giudicato che le iniziative investigative compiute erano prive di giustificazione, nonostante 60 persone fossero state per molti anni soggette ad indagini ed esposte alla gogna giudiziaria, nessuna conseguenza negativa ne derivò al procuratore in questione, né sul piano della valutazione della sua professionalità, né per l’ingente ed accertato spreco di pubblico danaro.  Né avrebbe potuto essere altrimenti in regime di obbligatorietà dell’azione penale e di autonoma iniziativa del pubblico ministero nel promuovere e condurre le indagini di sua sponte e senza limitazioni di spesa[8].  

 

Secondo esempio.  Come si sa il pubblico ministero è tenuto per legge a svolgere anche indagini a favore degli indagati (art. 358 cpp).  Nelle mie interviste ad un campione di mille avvocati penalisti, effettuata nel 2000) non solo mi è stato segnalato che ciò avviene molto raramente, ma anche che (lo dice il 13,3% di loro) vi sono procuratori che ignorano deliberatamente le prove a discarico[9].  Ritenni che si trattasse di una informazione inattendibile fino a quando non ne trovai la prova in una sentenza disciplinare.  Un pubblico ministero aveva omesso di rivelare al giudice del riesame (cioè al c.d. tribunale della libertà) che un indagato in carcerazione preventiva era stato scagionato dall’aver partecipato ad un sequestro dalla testimonianza di uno degli autori confessi del sequestro stesso. Il tribunale del riesame all’oscuro di quella testimonianza aveva quindi confermato il provvedimento di custodia cautelare ed il cittadino innocente rimase quindi in carcerazione preventiva per altri 8 mesi prima di essere scarcerato sulla base di quella stessa testimonianza.  Il caso fu portato all’attenzione del giudice disciplinare.  I fatti come dianzi sommariamente riferiti sono confermati dalla sentenza che tuttavia assolse comunque il procuratore in questione[10].  Dopo questi eventi le valutazioni espresse sulla professionalità di quel pubblico ministero sono state tutte altamente positive.

 

Terzo esempio.  Due procuratori della procura della Repubblica di Roma erano convinti che una testimone avesse visto chi aveva sparato e aveva ucciso una studentessa dell’Università.  In sede di interrogatorio la signora in questione era accompagnata da un suo cognato poliziotto.  Rispondendo al pubblico ministero, negò in preda a forte emozione di aver visto alcunché.  Il pubblico ministero uscì dal suo ufficio lasciando la teste in compagnia del parente-poliziotto e ordinò che i loro colloqui fossero registrati.  Anche di fronte alle insistenze del cognato poliziotto la signora negò tra le lacrime di aver visto chi aveva sparato.  Il pubblico ministero tornò quindi nell’ufficio dimenticando di far disattivare la telecamera. Il filmato quindi ritrasse un pesante sequela di intimidazioni rivolte dal pubblico ministero alla teste che sempre più disperata e piangente seguitava a negare di sapere alcunché.  Il pubblico ministero le disse che sarebbe finita in prigione come complice del delitto se non avesse detto quanto aveva visto e la invitò a riflettere su quali sarebbero state le conseguenze per i suoi figli se fosse finita in prigione.  Alcuni giorni dopo la teste “confessò”. Il filmato venne accidentalmente alla luce e fu anche trasmesso dalla televisione pubblica. Persino il Primo ministro di allora, Romano Prodi, espresse il suo sgomento a riguardo.  Valutazioni negative sull’episodio furono espresse nell’immediato anche in sede CSM[11].  I pubblici ministeri in questione tuttavia non subirono conseguenze né sul piano disciplinare, né sul piano della valutazione della loro professionalità.

 

Si potrebbero fornire altri esempi sui comportamenti, per così dire, “anomali” dei pubblici ministeri italiani a partire dal caso giudiziario di Enzo Tortora.  Il numero degli episodi che si possono ricordare è però poco rilevante per ciò che qui più importa, e cioè che tali episodi siano potuti avvenire senza conseguenze per i pubblici ministeri che ne sono stati gli autori.  Il fatto che quei comportamenti non siano stati sanzionati e che le successive valutazioni di professionalità dei loro autori siano rimaste altamente laudative vuol infatti dire che di fatto quei comportamenti rientrano tra le opzioni comportamentali consentite al pubblico ministero dal nostro ordinamento, sono cioè pienamente legittime. 

II.  Le principali conseguenze disfunzionali derivanti dal principio di obbligatorietà dell’azione penale

 

Passo ora a segnalare alcune delle principali conseguenze disfunzionali di ordine sistemico che sono generate dalle principali caratteristiche di assetto del pubblico ministero che ho dianzi descritto. 

 

a) L’obbligatorietà dell’azione penale vanifica il principio costituzionale dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge

 

Dagli anni 1960 e fino 15 anni fa, quando parlavo o scrivevo del pubblico ministero e dell'obbligatorietà dell'azione penale ero sempre costretto a fornire documenti ed esempi per mostrare l'inapplicabilità di quel principio costituzionale.  Ora finalmente ne posso farne a meno.  Sull'inapplicabilità di quel principio si è pronunziata una commissione di riforma composta in prevalenza di magistrati appartenenti alle varie correnti[12].  Il CSM  ha dovuto in alcune specifiche occasioni riconoscere l'inapplicabilità del principio di obbligatorietà anche se ha assunto a riguardo posizioni ambivalenti.  Ad esempio, da un canto ha approvato -seppur solo a maggioranza- i criteri con cui il procuratore capo di Torino, Marcello Maddalena, ha di recente fissato analitici criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, (suggerendo ai suoi sostituti di "privilegiare la strada della richiesta di archiviazione -anche generosa- ogni qual volta essa appaia praticabile o anche possibile" e indicando anche quali casi "accantonare" temporaneamente), ciò al fine di regolare la discrezionalità dei singoli procuratori ed economizzare le risorse del suo ufficio[13]. Dall'altro il CSM si è limitato ad approvare i programmi di priorità che venivano sottoposti alla sua valutazione non ponendosi il problema delle difformità nell'esercizio dell'azione penale tra le varie procure della Repubblica, nè il problema di quali dovrebbero essere le responsabilità del pubblico ministero nel caso disapplicasse le priorità prefissate (che altrimenti la loro applicazione diviene solamente volontaria).  Illuminante a riguardo è, poi, una sentenza disciplinare del CSM con cui è stato assolto un sostituto procuratore che, trasferendosi ad altro ufficio, aveva lasciato un elevato numero di casi inevaso.  La Sezione disciplinare del CSM lo ha assolto perché, come ci dice la sentenza: "in assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica è inevitabile che tali criteri di priorità siano individuati dai singoli sostituti"[14].  In altre parole, poiché solo in pochissimi casi i capi delle procure fissano quei criteri in modo articolato[15] (non sono tenuti a farlo), il CSM riconosce che di regola sia legittimo che ogni sostituto fissi le sue priorità.  Peraltro, che i singoli sostituti procuratori in casi del tutto simili tra loro seguano spesso criteri e priorità diversi l'uno dall'altro nell'uso dei mezzi di indagine e nell'esercizio dell'azione penale è ampiamente confermato dalla stragrande maggioranza delle interviste che abbiamo fatto a 3000 avvocati penalisti tra il 1992 ed il 2000[16]

Ciò non può che generare per il cittadino gravi disuguaglianze di fronte alla legge penale.  Disuguaglianze che possono essere sanate solo con una regolamentazione dei mezzi di indagine e delle priorità nell’azione penale nell’ambito di una struttura unitaria del publico ministero simile a quella degli altri paesi democratici, responsabilizzando i pubblici ministeri perché le rispettino ed effettuando verifiche sulla loro osservanza sia a livello locale che nazionale.  Paradossalmente, quindi, il principio di obbligatorietà dell’azione penale voluto dal costituente per tutelare l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge costituisce il principale impedimento alla sua regolamentazione, mentre è solo con la sua regolamentazione a livello anche nazionale che quella eguaglianza si può di fatto promuovere, per quanto umanamente possibile.  Ricordo che l’unico tentativo sinora fatto per stabilire forme cogenti di coordinamento a livello nazionale, seppur limitatamente  ai reati di criminalità organizzata, sono stati sconfitti perché considerati dalla magistratura associata e dal CSM contrari alla indipendenza operativa dei singoli pubblici ministeri. Mi riferisco alla prima versione del decreto per la creazione della Direzione nazionale antimafia, predisposto da Giovanni Falcone, che prevedeva anche forme di collegamento con Parlamento e Governo di cui ci occuperemo qui di seguito[17]

 

b) L’obbligatorietà dell’azione penale sottrae al controllo democratico le scelte di politica criminale a livello nazionale ed internazionale.

 

L’impossibilità materiale di perseguire tutti i reati lascia di fatto alla discrezionalità di un corpo burocratico reclutato per concorso,  e quindi senza legittimazione democratica, la definizione di quali reati perseguire  prioritariamente e con efficacia. In altre parole definire di fatto gran parte delle politiche pubbliche nel settore criminale.  Ciò non avviene in nessun paese a consolidata tradizione democratica. Vale a riguardo ricordare quanto lapidariamente affermato dalla Commissione presidenziale francese a cui, nel 1997, il Presidente Chirac aveva, tra l’altro, demandato il compito di esplorare la possibilità di sottrarre il pubblico ministero al controllo gerarchico del Ministro della giustizia e quella di adottare il principio di obbligatorietà.  La Commissione liquidò la questione in poche parole ricordando che nessun paese era mai riuscito né sarebbe mai potuto riuscire a perseguire tutti i reati. Che quindi  un pubblico ministero pienamente indipendente chiamato ad applicare quell’inapplicabile principio avrebbe comunque dovuto compiere scelte di priorità.  Cioè scelte di politica criminale.  Concludeva ricordando che in un paese democratico le politiche pubbliche in tutti i settori, e quindi anche nel settore criminale, devono essere definite da organi che ne rispondano politicamente[18]

Solo una volta il Governo italiano ha tentato di intervenire su questa materia, quando il Consiglio dei ministri, nella sua riunione del 25 ottobre 1991, approvò un decreto legislativo in cui si stabiliva che, limitatamente ai reati di criminalità organizzata, il Governo ed il Parlamento potessero dare istruzioni al Procuratore nazionale antimafia.  Prevedeva anche che delle attività della Direzione nazionale antimafia si desse un rendiconto al Governo ed al Parlamento[19]. Il testo di quel provvedimento era stato proposto dal Ministro della giustizia Claudio Martelli, ma di fatto predisposto -anche con la mia collaborazione- da Giovanni Falcone, il quale riteneva che tali aspetti potessero essere regolati da legge ordinaria[20].  L’Associazione nazionale magistrati reagì duramente accusando il Governo di violare il principio costituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero[21].  Come è capitato in numerose occasioni, precedenti e successive, anche in questo caso l’opposizione del potente sindacato della magistratura indusse il Governo a modificare subito il testo già approvato eliminando le parti riguardanti i rapporto tra pubblico ministero e altri organi dello Stato.  Falcone divenne a dir poco impopolare tra i suoi colleghi, ed il CSM gli fece pagare a caro prezzo la sua iniziativa[22], una iniziativa che -come ho scritto altrove- era stata la principale ragione che lo aveva spinto ad accettare la nomina a Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia[23].

 

Aggiungo subito che l’obbligatorietà dell’azione penale sottrae al controllo democratico le scelte di politica criminale anche a livello europeo.  Nelle periodiche riunioni con i suoi colleghi degli altri paesi europei il nostro Ministro non può assumersi alcun impegno in materia di priorità nel perseguire i crimini di interesse europeo e transnazionale: può solo dire che per il nostro Paese gli unici soggetti legittimati ad assumere decisioni i materia di iniziativa penale e di conduzione delle indagini sono i singoli uffici del pubblico ministero o anche i singoli sostituti procuratori che delle loro scelte non possono essere chiamati a rispondere ad alcuno, e tanto meno al Ministro della giustizia.  Quando il nostro Ministro della giustizia assume impegni a livello internazionale non è poi di fatto in grado di dare ad essi esecuzione proprio a causa dell’obbligatorietà dell’azione penale (vedremo un esempio più innanzi).  

 

c) L’obbligatorietà dell’azione penale è di pregiudizio ai diritti del cittadino nell’ambito processuale. 

 

Un uso avventato o indebito dell’iniziativa penale può produrre, e spesso produce, devastanti conseguenze sullo status sociale, economico, familiare, politico e della stessa salute dell’indagato o imputato.  Conseguenze cui non si rimedia  con una sentenza di proscioglimento che giunge spesso a distanza di anni.  In vari paesi democratici le regole relative all’esercizio dell’azione penale sono specificamente mirate anche ad evitare che pervengano in giudizio processi che non siano basati su solide basi probatorie e che i cittadini possano da ciò risultare gravemente danneggiati (ad es. in Inghilterra e Galles o in Olanda).  In un discorso tenuto ai Procuratori federali degli Stati Uniti nel 1941 l’allora U.S. Attorney General Robert Jackson, poi divenuto notissimo giudice della Corte Suprema, ricordava che se si lascia al pubblico ministero la possibilità di scegliere i casi da perseguire si lascia a lui anche la possibilità di scegliere le persone da perseguire e di dirigere quindi le indagini alla ricerca di prove per i possibili reati da lui/lei commessi.  Affermava che -per il cittadino e la democrazia- questo è il maggiore pericolo insito nel ruolo del pubblico ministero[24].  I poteri concessi al nostro pubblico ministero -tutti in vario modo collegati al principio di obbligatorietà-  sono tali da rendere quel pericolo molto più grave ed incombente che in qualsiasi altro paese a consolidata democrazia.  E’, infatti,  pienamente legittimo che, se lo vogliono, i nostri pubblici ministeri conducano, di loro iniziativa ed in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su ciascuno di noi, dirigendo le varie forze di polizia ed utilizzando tutti i mezzi di indagine disponibili, senza limitazioni di spesa, per accertare  reati che loro stessi (più o meno fondatamente) ritengono essere stati commessi.  Per queste decisioni non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili, neanche quando producono devastanti effetti su cittadini ingiustamente indagati o imputati e sulle loro famiglie.  Come già detto, il principio di obbligatorietà dell’azione penale trasforma tutte le loro iniziative, per discrezionali che siano, in “atti dovuti”.

 

d) L’obbligatorietà dell’azione penale è causa di lentezza ed inefficienza della giustizia penale

 

In altri paesi democratici le regole che impegnano e responsabilizzano il pubblico ministero  a non portare a giudizio cause per cui non esistono solidi elementi di prova servono anche ad evitare di sovraccaricare il lavoro dei giudici.  Inoltre consentono loro di celebrare i processi in tempi più rapidi e di evitare che vadano in prescrizione processi per cui quelle prove sono inconfutabili.  Secondo le lapidarie parole usate nei lavori preparatori della riforma del pubblico ministero inglese del 1985,  un diverso orientamento è “al contempo ingiusto per chi viene accusato e un inutile spreco delle limitate risorse del sistema di giustizia penale”.  Ed a riguardo è opportuno ricordare che in Italia abbiamo i processi penali più lunghi d’Europa, e che il numero delle prescrizioni è ormai di poco inferiore alle 200.000 l’anno.

In una sua raccomandazione agli stati membri, il Comitato dei ministri della giustizia del Consiglio d’Europa ha affrontato il problema dell’efficienza della giustizia penale e dei ritardi che la caratterizzano. Senza mezzi termini ha raccomandato a riguardo l’adozione di un sistema di discrezionalità dell’azione penale che sia regolata nell’ambito del processo democratico.  Dopo aver aggiunto una serie di indicazioni su come regolamentare la discrezionalità del pubblico ministero, raccomanda agli stati membri che hanno costituzionalizzato il principio di obbligatorietà di adottare misure che consentano di raggiungere gli stessi obiettivi deflativi che si raggiungono col principio di opportunità[25].  Questa raccomandazione è rimasta priva di effetto nel nostro paese nonostante sia stata firmata dal nostro Ministro della giustizia.

E’ veramente sorprendente che in Italia le priorità siano state ripetutamente regolate dal Parlamento su iniziativa governativa non già con riferimento alle attività del pubblico ministero, come negli altri paesi democratici, ma bensì con riferimento allo svolgimento dei processi[26].

Le norme sulle priorità nello svolgimento dei processi possono essere utili a rendere più probabile che quelli per i reati più gravi non vadano in prescrizione ma, a differenza di quelle che riguardano le attività del pubblico ministero, non sono atte a promuovere una maggiore efficienza dell’apparato giudiziario perché i costi processuali, in termini di risorse umane, finanziarie e di tempo, precedenti alla fase del giudizio, spesso molto elevati, sono comunque già stati “pagati” per tutti i processi pendenti (attività investigative, lavoro del pubblico ministero, lavoro del giudice dell’udienza preliminare, ecc.).  Che ciò avvenga può sembrare illogico e senza una spiegazione, anche perché la regolamentazione delle priorità con riferimento alla celebrazione dei processi vanifica essa stessa, seppure in maniera meno visibile, il principio di obbligatorietà. La spiegazione invece c’è e va ricercata nel fatto che la fissazione delle priorità nella celebrazione dei processi non pregiudica i poteri del pubblico ministero ed è quindi accettabile da parte del potente sindacato delle toghe e delle sue rappresentanze nel CSM.  In tal modo, infatti, l’iniziativa penale obbligatoria mantiene comunque nelle mani della magistratura un potere discrezionale di grande rilievo. Cioè la possibilità di svolgere indagini e di esercitare l’azione penale su ognuno di noi quando lo ritiene opportuno e pretendere che si sia sempre trattato di “atti dovuti”.  Ciò pone di fatto nelle mani del pubblico ministero un tremendo e temutissimo potere sanzionatorio autonomo e sostanzialmente illimitato.  Infatti, come abbiamo già detto, il cittadino innocente sottoposto ad indagini e ad un’azione penale ingiustificate subisce spesso danni irreversibili non sanabili da una sentenza assolutoria, che spesso sopraggiunge dopo molti anni, mentre il pubblico ministero di ciò non porta responsabilità alcuna.  

Che questo potere discrezionale venga esercitato in maniera ingiustificata da molti o pochi, con continuità o si manifesti con più evidenza solo in certi periodi, ciò non altera il rilievo ed il peso di questo potere nella percezione e nei comportamenti dei cittadini, della classe politica nazionale e locale, dei membri del Governo e del Parlamento.  Ogni tanto viene comunque a tutti ricordato, come è avvenuto quest’anno con l’incriminazione del Ministro della giustizia Clemente Mastella e con la conseguente caduta del Governo Prodi, o come è accaduto l’anno scorso con l’assoluzione dopo oltre un decennio dell’ex ministro Antonio Gava.  

 

 

III. Considerazioni in materia di indipendenza e responsabilità del pubblico ministero nei paesi democratici

 

Quanto sin qui detto non deve essere inteso come se la fissazione di regole e delle priorità per l’uso dei mezzi di indagine e per l’esercizio dell’azione penale fosse cosa semplice e di facile manutenzione.  L’esperienza di altri paesi ci mostra che non è così.  Soprattutto negli ultimi decenni il ruolo del pubblico ministero è stato spesso oggetto di accesi dibattiti e/o di riforme anche e soprattutto nei paesi democratici a più consolidata tradizione democratica, come Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Olanda e così via.  In realtà, nell’affrontare o nel rivedere la posizione istituzionale del pubblico ministero, i paesi democratici devono cercare di bilanciare a livello operativo due valori confliggenti ma entrambi di grande rilievo. Da un lato la consapevolezza che il pubblico ministero partecipa alla formulazione e attuazione delle politiche criminali, impone l’adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell’ambito del processo democratico. Dall’altro, l’esigenza di garantire che l’azione penale sia esercitata con rigore, uniformità e correttezza impone di evitare un collegamento troppo stretto col potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la condotta (attiva od omissiva) del pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all’obiettivo di assicurare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale[27].

            Se si considerano le modifiche introdotte nell’assetto istituzionale del pubblico ministero in vari paesi ed il perdurante dibattito sul suo ruolo si può certamente dire che i tentativi sinora fatti per bilanciare i due valori dell’indipendenza e della responsabilità assumono le caratteristiche di un “equilibrio instabile” piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti (una significativa illustrazione di questo fenomeno ci verrà anche da quanto ci dirà il Prof. Zander sulle proposte di riforma che sono attualmente in discussione in Inghilterra)   In particolare, in vari paesi democratici  si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza che, tuttavia, mai viene spinta fino al punto di ignorare il “valore democratico della responsabilità” per le scelte di politica criminale e la necessità di regolamentare e responsabilizzare le attività del pubblico ministero nell’ambito di una struttura gerarchica di ambito nazionale.  All’interno di questo quadro l’Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è qui data al valore dell’indipendenza. Nessun rilievo viene dato al valore democratico della responsabilità per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali.  In buona sostanza il valore dell’indipendenza ha perso la connotazione strumentale che gli aveva voluto dare il nostro costituente, cioè strumento che in regime di effettiva obbligatorietà dell’azione penale avrebbe garantito l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge penale, ed è di fatto diventato un valore di natura assoluta, non soggetto ad alcuna verifica.

Credo, quindi che sia necessaria una riflessione sull’uso del concetto stesso di indipendenza, perché se lo si usa indifferentemente sia con riferimento al giudice che al pubblico ministero si generano non poche confusioni e fraintendimenti, che seppur particolarmente evidenti nel caso italiano non sono assenti neppure nel dibattito sugli assetti giudiziari di altri paesi di civil law.  Sotto il profilo funzionale il termine “indipendenza” ha, e non può non avere, un significato diverso quando viene riferito allo status del giudice o a quello del pubblico ministero.  Gli obiettivi, e quindi anche le garanzie, dell’indipendenza nei paesi democratici di  regola sono cioè diversi a seconda che si tratti del giudice o del pubblico ministero.  Discutere approfonditamente sul piano comparato di tali differenze, e delle disfunzioni che si verificano quando di quelle differenze non si tiene conto, travalica gli obiettivi di questa presentazione.  Mi limito qui a ricordare che l’indipendenza del giudice è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire alcune delle caratteristiche fondamentali del suo specifico ruolo, vale a dire quello di organo passivo che giudica in modo imparziale controversie da altri a lui sottoposte dopo aver ascoltato, su un piano di piena parità, le parti in conflitto.  E’ quindi necessario creare le migliori condizioni perché egli venga sottratto ad influenze sia esterne che interne al giudiziario.  In democrazia, la stessa legittimazione del suo ruolo dipende non solo dal suo essere ma anche dal suo apparire come indipendente ed imparziale. 

Molto diverse le caratteristiche funzionali del ruolo del pubblico ministero.  Lungi dall’essere passivo e super partes il suo ruolo è per sua natura essenzialmente attivo (spetta a lui l’iniziativa penale, ed in molti paesi, Italia inclusa, anche la direzione delle indagini di polizia).  Non è quindi un organo imparziale, né la sua legittimazione dipende dall’apparire tale.  Visibile la differenza tra i ruoli del giudice e del pubblico mistero sotto il profilo dell’indipendenza interna:  per essere efficace l’attività del pubblico ministero richiede spesso un coordinamento delle sue iniziative con altri componenti del suo ufficio o con quello di altri uffici di procura, mentre per il giudice un tale coordinamento nel merito del suo agire e decidere rappresenterebbe una violazione della sua indipendenza.  Rilevanti anche le differenze per quanto riguarda l’indipendenza esterna.  La natura intrinsecamente discrezionale dell’azione penale rende la definizione delle priorità da seguire nel suo esercizio parte integrante e rilevante delle scelte da effettuare per un’efficace repressione dei fenomeni criminali.  Proprio per il loro grande rilievo politico, tali scelte vengono di regola in vario modo fissate in via generale nell’ambito del processo democratico, e sono vincolanti per i pubblici ministeri. Sotto questo profilo l’indipendenza esterna del pubblico ministero consiste non tanto, come è invece per il giudice, nel non ricevere direttive di ordine generale dall’esterno, ma piuttosto nel non ricevere con modalità prive di trasparenza disposizioni di natura particolare rispetto a casi specifici.

 

 

IV. Note conclusive

 

Prima di chiudere un breve accenno al tema della divisione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri che per molti sembra essere il principale problema da risolvere in sede di riforma del pubblico ministero. Sia ben chiaro anche io sono decisamente favorevole a tale divisione. Ritengo tuttavia che l’efficacia di questa riforma rispetto agli obiettivi che si propone di conseguire non possa essere ottenuta senza la responsabilizzazione delle attività del pubblico ministero nell’ambito del processo democratico e di una struttura organizzativa unitaria e gerarchica.  La divisione delle carriere viene, infatti, chiesta con l’obiettivo di rendere il giudice effettivamente terzo ed imparziale tra le parti del processo, cioè difensore e pubblico ministero.  Un giudice terzo anche perché non più collega del pubblico ministero, cioè di una delle parti.

Attualmente i magistrati ordinari in carriera sono  all’incirca 10.000.  Con la sola divisione delle carriere questi giudici e pubblici ministeri già in servizio si considereranno, dall’oggi al domani meno colleghi a livello processuale? E’ quantomeno improbabile che ciò avvenga anche in una prospettiva di medio-lungo termine (quando saremo tutti morti), anche perché i giudici e i pubblici ministeri non solo seguiterebbero a lavorare negli stessi palazzi con frequentazioni quotidiane come quelle di oggi, ma manterranno anche la stessa associazione professional-sindacale (né lo si può certo vietare), continueranno ad avere gli stessi interessi corporativi da difendere congiuntamente.  In un tale contesto potranno veramente cambiare in un prevedibile futuro i processi di socializzazione professionale, di interiorizzazione dei consolidati valori del loro associazionismo che ispirano e governano i loro comportamenti?  Realisticamente parlando, a me sembra difficile da immaginare.  Per riflettere sul rilievo istituzionale ed operativo che assumono da un canto la divisione delle carriere e dall’altro l’assetto del pubblico ministero in un sistema politico democratico, non è irrilevante notare che mentre esistono in Europa altri casi in cui giudici e pubblici ministeri appartengono alla stessa carriera ed hanno un comune Consiglio superiore (Francia, Belgio, Romania e Bulgaria), in nessuno di essi esiste un pubblico ministero che non sia inquadrato al contempo in una struttura gerarchica unitaria con al vertice un responsabile che risponda politicamente del suo operato.

Da ultimo voglio sottolineare che qui ho voluto porre in evidenza le caratteristiche di assetto ed operative del nostro pubblico ministero, le principali disfunzioni che genera e la sua profonda diversità dall’assetto del pubblico ministero negli altri paesi democratici.  Non ho fatto proposte di riforma non solo perché in questa sede non mi competevano anche perché sarebbe difficile disegnare un suo diverso assetto senza considerare anche le modificazioni che sarebbero necessarie in altre istituzioni (Ministro della giustizia, CSM, e altre ancora).

Chiudo ricordando che, a mia conoscenza,  la prima proposta per l’abolizione del principio di obbligatorietà dell’azione penale la si trova nel progetto di riforma presentato da Forza Italia alla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, nel 1997. E’ stata di recente riproposta dall’On. Rita Bernardini in una mozione parlamentare seguendo un’idea che l’On. Marco Pannella coltiva da molti anni.  Nell’ultima campagna elettorale l’On. Walter Veltroni, ha proposto di regolarla con il concorso del Parlamento[28]. Che sia la volta buona? 

 

 

 

 

 


[1] Viene qui sinteticamente utilizzato un materiale molto ampio di ricerche e seminari condotti dall’autore in Italia ed in altri Paesi con finanziamenti sia del CNR che di organismi internazionali (come UNDP, World Bank, UNODOC, USAID, COLPI, Open Society, ed altri ancora).  Per una recente ricerca sugli assetti del pubblico ministero attenta al momento applicativo e relativa sia a nove.paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Francia Germania, Inghilterra-Galles, Italia, Germania, Italia, Ungheria) sia a tre paesi extraeuropei (Stati Uniti, Cile e Sud Africa) vedi Open Society Institute, Promoting Prosecutorial Accountability, Independence and Effectiveness, Sofia 2008.  Numerosi sono gli scritti dell’autore di questa relazione dedicati alla analisi e descrizione del ruolo del pubblico ministero italiano in chiave comparata.  Tra essi: “Prosecutorial Accountability, Independence and Effectivenes in Italy” pubblicato nel libro dell’Open Society Institute appena citato; “Indipendenza e responsabilità del PM alla ricerca di un difficile equilibrio: i casi di Inghilterra, Francia e Italia”, Il giusto processo, n. 1, maggio 2002, pp. 216-246 (con versioni pubblicate anche in inglese, russo e spagnolo);  “L’indipendenza del pubblico ministero e il principio democratico della responsabilità in Italia: l’analisi di un caso deviante in prospettiva comparata”, Rivista italiana di diritto e procedura penale, Anno XLI, Fasc. 1, 1998, pp. 230-252 (con versioni pubblicate anche in inglese, francese, spagnolo);;  “Il pubblico ministero: indipendenza, responsabilità, carriera separata”, L’Indice penale, XXIX, n. 2, 1995, pp. 399-437;  “Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità”, in A. Gaito (a cura di), Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Jovene, Napoli 1991,  pp. 170-208.  Per una presentazione degli assetti del pubblico ministero nei 25 paesi dell’Unione Europea vedi P. Tak (ed.), Tasks and Powers of the Prosecution Services in the EU Menber States, opera in due volumi, Wolf Legal Publishers, Nijmegen, Olanda, 2004 e 2005

 

[2] Si veda a riguardo G. Di Federico (a cura di), Recruitment, professional evaluation and career of judges and prosecutors in Europe: Austria, France, Germany, The Netherlands and Spain, Ed. Lo Scarabeo, Bologna 2005. Il testo può essere stampato accedendo al sito web www.irsig.cnr.it.

[3] Si vedano gli art. 133 (lettera m), 219 e 220 della Costituzione portoghese.

[4] Il d.lgs n. 106/2006 ha abolito l’articolo l’art. 7-ter che dal 1988 conferiva al CSM il potere di regolamentare anche l’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero. Con delibera del 12 luglio 2007 il CSM ha, tuttavia, riaffermato la sua competenza a fornire indicazioni anche in materia di organizzazione delle procure della Repubblica richiamando esplicitamente a riguardo il suo ruolo di “vertice organizzativo della magistratura”. In quella delibera ha anche ricordato che la nuova legge impone comunque ai capi delle procure di comunicare i piani organizzativi dei propri uffici al CSM e che il CSM stesso nell’esaminarli potrà effettuare le sue valutazioni e, se negative, includerle nei fascicoli personali dei procuratori per essere poi tenute presenti in sede di valutazione della loro professionalità. Si tratta di giudizi negativi che avranno molto più rilievo che in passato quando l’attribuzione di un incarico direttivo era effettuata dal CSM a tempo indeterminato e le valutazioni negative, o non pienamente positive, potevano solo frustrare le aspirazioni future dei dirigenti a sedi più gradite o ad altri e più importanti incarichi direttivi. Non potevano però, in sede di valutazione della professionalità privarli dell’incarico direttivo che già ricoprivano. La legge del 2006 che introduce la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi -quattro anni con un solo rinnovo dello stesso incarico nello stesso ufficio- aumenta di molto il rilievo delle valutazioni del CSM in materia agli occhi dei magistrati che esercitano quegli incarichi e che aspirano a ottenerne il rinnovo per un secondo quadriennio. 

[5] I nostri dati di ricerca a riguardo sono molto chiari.  Ad esempio, tra il maggio 1979 ed il giugno 1981, il CSM effettuò 4.034 valutazioni di professionalità riguardanti i quattro livelli da magistrato di tribunale a magistrato di cassazione con funzioni direttive superiori:  i promossi furono 4.019  (cioè il 99.6% del totale); solo 15 (lo 0.4%) ebbero valutazioni negative, tutte motivate da gravi condanne disciplinari o da procedimenti penali pendenti (il numero di valutazioni in quei due anni è molto alto perché il CSM dovette effettuare non solo le ordinarie promozioni relative a due anni, ma anche smaltire “l’arretrato” di tre anni derivante dalla riduzione di tre anni nei tempi di percorrenza della carriera).  L’orientamento a effettuare le promozioni sulla sola base dei requisiti minimi di anzianità emerge anche dall’analisi delle 9.636 valutazioni di professionalità effettuate dal CSM negli 11 anni che vanno dal 1993 al 2003: su 9.636 solo 57 sono state le valutazioni negative (in genere temporanee), di cui 50 per gravi violazioni disciplinare o procedimenti  penali. A riguardo si veda la dettagliata analisi delle promozioni ai vari livelli della carriera e delle singole, eccezionali cause del limitatissimo numero di valutazioni negative in G. Di Federico, “Recruitment, professional evalutaion, career and discipline of judges and prosecutors in Italy” in G. Di Federico (a cura di), Recruitment, professional evaluation…, op. cit. (il testo può essere consultato e stampato accedendo al sito web www.irsig.cnr.it).

[6] Ibidem le parti relative alle retribuzioni nei vari paesi vanno, ovviamente lette in collegamento con la selettività delle valutazioni.  Per quanto riguarda il trattamento economico dei magistrati italiani aggiornato al 2003 (manca l’adeguamento triennale del 2006), vedi le pagg. 153-155.

[7] A riguardo, vedi G. Di Federico, M. Sapignoli. Processo penale e diritti della difesa, Carocci, Roma 2002, pagg. 24-47.

[8] Per una presentazione di questo caso e degli sviluppi successivi, vedi il mio intervento nel Plenum del CSM del 18 settembre 2003. Vedi anche Delfo Del Bino, Il caso massoneria, un decennio di politica, giustizia e democrazia, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2001, in particolare i capitoli 2 e 3.

[9] V. G. Di Federico, M. Sapignoli, Processo penale … op. cit., pagg. 106-107,  ed in particolare la tabella 4.7.

[10] Si vedano: la sentenza della sezione disciplinare del CSM del 23 gennaio 1998. n. 9/98, e la sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione  del 4 maggio 1999, n. 282.

[11] La trascrizione degli interrogatori e le valutazioni negative espresse per l’accaduto da parte del presidente del Consiglio, di parlamentari e dello stesso CSM possono essere lette in A. Beretta Anguissola e A. Figà Talamanca, La prenderemo per omicida. Caso Marta Russo: il dramma di Gabriella Alletto, KOINè, Roma 2001.

[12] Vedi “Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, Documenti Giustizia, 1994, n. 5, pagg. 1094-1102.

[13] Vedi il documento della Procura della Repubblica di Torino, prot. N. 58/07, del 10 gennaio 2007 dal titolo “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza dell’applicazione della legge che ha concesso l’indulto”, che fissa in modo analitico le priorità da seguire. Questa iniziativa del Procuratore Marcello Maddalena fu discussa, e approvata, a maggioranza, dal CSM nella seduta pomeridiana del 15 maggio 2007.  Va ricordato che nei primi anni 1990 anche un altro procuratore (circondariale) di Torino, Wladimiro Zagrebelsky, aveva adottato priorità per l’esercizio dell’azione penale, anche se meno analitiche di quelle del procuratore Maddalena.

[14] Sentenza del 20 giugno 1997. Un pubblico ministero era stato incolpato di aver trascurato un notevole numero di procedimenti che, dopo il suo trasferimento ad altro ufficio, erano stati ridistribuiti aggravando pesantemente il carico di lavoro dei suoi ex-colleghi.  Nella sentenza, dopo aver ricordato che negli uffici di procura “… la domanda di giustizia è notevolmente superiore alla capacità …. di esaminare i relativi procedimenti …” e che quindi “… non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità …”, il pubblico ministero viene assolto perché “In assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica, è inevitabile che tali criteri di priorità siano individuati dai singoli sostituti”.  Avendo salvato l’incolpato la sentenza salva anche il principio di obbligatorietà.  Aggiunge infatti subito dopo “Ciò non suona offesa (sic!) alla obbligatorietà dell’azione penale” perché “… non deriva da  considerazioni di opportunità … ma trova causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organizzazione giudiziaria nel suo complesso e della procura della Repubblica in particolare”.  Come si sa res iudicata facit de albo nigrum.

[15] Nel 2007 tre su 166: oltre al procuratore Maddalena solo quelli di Busto Arsizio e Palermo. Va aggiunto che fissare le priorità è per un procuratore molto oneroso perchè di fatto il CSM non approverebbe priorità su cui non converga l’assenso di tutti i sostituti dell’ufficio (e, se del caso, dei procuratori aggiunti).  Per rendersene conto basti leggere il già citato verbale del CSM del 15 maggio 2007, seduta pomeridiana.

[16] Il 67,7% degli avvocati afferma che vi sono differenze “rilevanti” nella definizione delle priorità da parte dei singoli pubblici ministeri.  Il 56,8% degli avvocati sostiene che tra pubblico ministero e pubblico ministero vi sono differenze “rilevanti” nella utilizzazione dei vari mezzi di indagine “per reati molto simili tra di loro”.  Cfr. G. Di Federico, M. Sapignoli, Processo penale … op. cit.: vedi la sintesi delle risposte a p. 17, ove sono indicate anche le tabelle che danno conto delle risposte in modo analitico

[17] Si veda il testo originale del D.L. 20/11/1991, n. 367 proposto dal Ministro Martelli, e successivamente modificato, con cui si creava la Direzione nazionale antimafia.  In quel testo, tra l’altro,si assegnavano al Procuratore nazionale antimafia poteri di tipo gerarchico su tutto il territorio nazionale in materia di indagini sulla criminalità organizzata. Era un testo normativo predisposto da Giovanni Falcone ed al quale io stesso avevo collaborato. L’opposizione della magistratura organizzata e del CSM fu durissima ed il testo del decreto fu cambiato escludendo poteri gerarchici del Procuratore nazionale antimafia e la sua stessa possibilità di condurre direttamente indagini in materia di criminalità organizzata.  Per i contenuti della prima versione del D.L. sulla Direzione nazionale antimafia, che prevedeva anche forme di collegamento con Parlamento e Governo si veda anche quanto detto infra alle note 20 e21.

[18] Il Presidente francese istituì la “Commission de réflection sur la justice” il 21 gennaio 1997 e la commissione presieduta dal Presidente della Corte di cassazione consegnò il suo rapporto conclusivo nel luglio 1997.   Solo 6 dei 20 componenti della commissione erano magistrati ordinari e 4 non erano neppure giuristi (giornalisti specializzati e professori di materie non giuridiche).  All’inizio della relazione si afferma che la commissione si impegna a svolgere i lavori prendendo le distanze dal “corporativismo giudiziario anche se ammantato dall’ideale dell’indipendenza della magistratura”.

[19] Vedi gli articoli 8 e 9 del testo del decreto legislativo citato supra alla nota 16. 

[20] Secondo la previsione dall’art. 107 della Costituzione nella parte in cui recita: “Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi  dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.  

[21] Le dichiarazioni dei principali esponenti dell’Associazione nazionale magistrati, come Giacomo Caliendo, Mario Cicala , Giovanni Palombarini, Raffaele Bertone e altri ancora, sono riportate dai giornali sotto titoli catastrofici.  Ne ricordiamo solo alcuni: “Giudici di Governo: oramai è cosa fatta” (l’Unità del 27 ottobre 1991); “Magistrati schiavi dell’esecutivo: celebreremo solo i processi che vorranno i politici” (Il Tempo, 28 ottobre 1991); “Le toghe insorgono: è fuori legge” (Gazzetta del Mezzogiorno, 26 ottobre 1991).

[22] Proprio per aver predisposto il testo che prevedeva da un canto connessioni tra le attività della Direzione distrettuale antimafia il Governo ed il Parlamento e dall’altro assegnava al Procuratore nazionale antimafia poteri di natura gerarchica in ambito nazionale per le indagini sulla criminalità organizzata, la Commissione per gli incarichi direttivi del CSM bocciò la sua domanda per il posto di Procuratore nazionale antimafia (ottenne due soli voti favorevoli su sei). In quell’occasione vennero addirittura avanzati sospetti sulla sua indipendenza qua magistrato. Di questo orientamento, presente nel CSM e non solo nella Commissione per gli incarichi direttivi, si fece puntuale cronista un componente del CSM, il Prof. Alessandro Pizzorusso, in un articolo apparso sull’Unità del 12 marzo 1992 con il significativo titolo “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché”, e non meno significativo sottotitolo “Il principale collaboratore del Ministro non dà più garanzie di indipendenza”. In tale articolo, l’autorevole esponente del CSM nominato dal Parlamento su indicazione del Partito Comunista Italiano, ricorda la stretta collaborazione di Falcone con il Ministro in carica, nonché i contrasti tra Ministro e CSM. Riferisce che “fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al Ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia…”; ricorda che “Se si analizza il risultato di voto espresso dai componenti della Commissione del CSM cui spetta formulare la proposta per la nomina dei direttivi ….. si nota come in quella circostanza Giovanni Falcone abbia riportato soltanto i voti di un laico appartenente al partito in cui milita il Ministro e di un togato appartenente a UNICOST” una delle correnti dell’Associazione nazionale magistrati. E al fine di sottolineare l’impopolarità tra i magistrati dell’unico voto di un magistrato a favore di Giovanni Falcone aggiunge che “se i magistrati di UNICOST votassero anche in plenum a favore di Falcone … .essi perderebbero consensi tra i loro colleghi che il 22 marzo debbono eleggere il comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati”.  Il deliberato della commissione incarichi direttivi che preferiva un altro magistrato a Falcone per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia non giunse mai al vaglio del Plenum del CSM perché nel frattempo, il 23 maggio 2002, Giovanni Falcone era stato assassinato dalla mafia.

[23] Per le vicende che portarono Giovanni Falcone ad assumere l’incarico di Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia il 13 marzo 1991, e per le motivazioni della sua scelta di accettare quell’incarico, cfr. G. Di Federico, “Io Falcone e la sua esperienza romana” (Il Messaggero, 29 maggio 2002).

[24] Vedi Robert H. Jackson, “The Federal Prosecutor, Journal of the American Judicature Society, vol. 24, giugno 1940, p. 19.  E’ il testo della “Prolusione alla seconda conferenza annuale dei pubblici ministeri federali degli Stati Uniti” del 1° aprile 1940. All’epoca Jackson ricopriva la carica di Attorney General degli Stati Uniti. Il brano cui si fa riferimento nel testo è il seguente: “L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una della maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessun pubblico ministero potrà mai indagare tutti i casi  di cui riceve notizia … Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue  che può anche scegliersi l’imputato. Qui sta il potere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga le persone da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero  ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge a carico praticamente di chiunque. Non si tratta tanto di scoprire che un reato è stato commesso e di cercare poi colui che l’ha commesso, si tratta piuttosto di individuare una persona e poi di cercare nei codici, o di mettere gli investigatori al lavoro, per scoprire qualcosa a suo carico…”.

 

[25] Raccomandazione del 17 settembre 1987, N° R 87, 18.

[26] Ad esempio: l’art. 227 del D. lgs. n. 51 del febbraio 1998 ( per iniziativa del Governo Prodi), e l’art. 132 bis del codice di procedura penale del marzo 2001 (per iniziativa del Governo D’Alema).

[27] Diverse sono le soluzioni che vari paesi hanno adottato -soprattutto negli ultimi decenni- per bilanciare queste contrapposte esigenze. Ad esempio: a) disposizioni intese ad ovviare all’inazione del pubblico ministero, come ad esempio l’iniziativa popolare in Inghilterra e Spagna o il ricorso al giudice per imporre l’esercizio dell’azione penale in Germania;  b) disposizioni che impongono al Ministro della giustizia di impartire direttive ai pubblici ministeri in forma scritta, come in Francia;  c) l’elaborazione di norme scritte volte a fissare le priorità cui i pubblici ministeri devono attenersi per quanto concerne sia la tipologia dei reati da perseguire sia le modalità di indagine, come in Inghilterra e in Olanda;  d) l’istituzione di “procuratori indipendenti” nominati ad hoc per perseguire i più alti gradi del potere esecutivo e gli alti funzionari dell’amministrazione pubblica, come negli Stati Uniti.

 

[28] W. Veltroni, “L’azione penale deve essere uniforme in tutte le procure“, Il Riformista, 19 marzo 2008.

Se i magistrati sono dappertutto

8 gennaio 2009 Commenti chiusi

Articolo apparso su “l’Opinione”

Nel convegno sulla giustizia promosso alla fine di ottobre dal Partito Democratico il programma di riforme del settore è stato presentato da quattro magistrati parlamentari: gli On. Finocchiaro, Tenaglia, Ferranti e Casson. Nel suo discorso al convegno l’On. Veltroni ha affermato solennemente che lui non avrebbe mai proposto o fatto riforme sulla giustizia “contro i magistrati”. C’era bisogno di dirlo?

Alcuni giorni fa il Ministro della giustizia Alfano ha ricevuto una delegazione del Partito democratico per discutere delle riforme della giustizia. La delegazione del Partito Democratico era composta da tre magistrati parlamentari: Il Ministro ombra della giustizia, già componente del CSM, On. Tenaglia e gli On. Ferranti e Casson. Il quotidiano “Libero” ci ha informati che la cosa ha deluso il Presidente Berlusconi e che “un fedelissimo del Cavaliere” ha commentato: “tanto valeva che si presentasse con i vertici dell’Associazione nazionale magistrati”. Se si può convenire che la composizione della delegazione del PD non fosse di buon auspicio per le riforme sulla giustizia. non si può però tacere che neppure quella ministeriale era molto equilibrata e bene auspicante, visto che anche il Ministro Alfano era affiancato da “esperti” del suo ministero che erano anch’essi tutti magistrati. Tra essi anche il magistrato-sottosegretario alla Giustizia, On. Caliendo leader di lungo corso dell’Associazione nazionale magistrati, ed ex componente del CSM. Chi avesse osservato dall’esterno l’incontro tra le due delegazioni avrebbe certamente ed a buon diritto potuto osservare: “ma che ci fa il Ministro Alfano in una riunione di rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati?”.

Sembra una battuta, ma purtroppo essa rappresenta in modo molto parziale un fenomeno ben più ampio e complesso, che da un canto agisce come efficiente freno alle riforme nel settore giudiziario e dall’altro crea una commistione tra classe politica e magistratura non certo compatibile con una adeguata protezione della indipendenza. I magistrati sono infatti da sempre presenti in posizioni di grande influenza in tutti i gangli istituzionali e partitici in cui le riforme della giustizia vengono elaborate e decise: non solo sono la stragrande maggioranza dei componenti del CSM, ma sono presenti come rappresentati di vari partiti politici in Parlamento e nelle commissioni giustizia della Camera e del Senato, nell’esecutivo nazionale e nei governi regionali e locali, presso la Presidenza della Repubblica e presso la Presidenza del Consiglio, presso la Corte Costituzionale (ove operano circa 30 magistrati come assistenti di studio di tutti i giudici costituzionali). Presso il ministero della Giustizia, poi, i magistrati sono circa 100 ed occupano da sempre tutte le posizioni direttive alte medie e basse, incluse quelle di grande rilievo politico come il gabinetto del Ministro e l’ufficio legislativo. A riguardo va anche precisato che, a differenza degli altri paesi democratici (come Francia, Germania, Austria, ecc.) in Italia i magistrati ministeriali non dipendono dal loro Ministro ma bensì interamente dal CSM per tutto quel che concerne il loro status (cioè le loro aspirazioni per quanto concerne promozioni, disciplina, future destinazioni a posizioni e sedi giudiziarie gradite).

Tra i numerosi magistrati che occupano posizioni di influenza sulle decisioni che riguardano l’assetto giudiziario spesso si creano veloci cortocircuiti che hanno sinora consentito loro di prevenire, indirizzare, e rendere inoperanti decisioni che ledono i loro interessi corporativi. Si tratta di fenomeni che alterano gravemente il corretto funzionamento dei pesi e contrappesi istituzionali e nella sostanza vanificano, nel settore dell’ordinamento giudiziario, le garanzie del corretto, equilibrato funzionamento delle istituzioni che la divisione dei poteri dovrebbe assicurare.

Molte sono le proposte di riforma della giustizia che da mesi vengono fatte dal Presidente del Consiglio, dal Ministro della giustizia, da rappresentati della maggioranza e dell’opposizione. Nessuna di esse, tuttavia, si è posta il problema di evitare le disfunzioni generate dalla pervasiva presenza dei magistrati in posizioni di grande influenza nell’ambito di tutti e tre i poteri della Stato, né il vistoso problema della commistione tra classe politica e magistratura che ne deriva. Fa eccezione solo la mozione presentata al Parlamento alcuni mesi fa dalla sparuta quanto battagliera pattuglia radicale eletta nelle liste del Partito democratico, mozione con la quale si propone di vietare tutte le attività extragiudiziarie dei magistrati. E’ una riforma che, a differenza di altre, può essere fatta con legge ordinaria.

Due postille. La prima: è solo naturale che chi occupa posizioni di potere o di rilevante influenza usi questi strumenti per proteggere i propri interessi corporativi, magari convincendosi anche di fare l’interesse generale. Se finora gli interessi corporativi della magistratura hanno potuto dominare le scelte in materia di ordinamento giudiziario non è certo colpa dei magistrati ma di chi ha consentito che quel fenomeno si verificasse e si espandesse.

La seconda postilla. Occorre ricordare che la dominante influenza degli interessi corporativi della magistratura in materia di ordinamento giudiziario non è solo supportata dalle posizioni istituzionali e di rappresentanza partitica che essi occupano. L’irresponsabile discrezionalità di cui i pubblici ministeri godono nella conduzione delle indagini e nell’esercizio dell’azione penale, gli effetti destabilizzanti che ciò ricorrentemente crea nelle istituzioni, certamente dà alle opinioni e richieste dei magistrati particolare autorevolezza agli occhi della casse politica.

Giuseppe Di Federico

La responsabilizzazione del PM

23 dicembre 2008 Commenti chiusi

l’Opinione, 23 dicembre 2008 

Leggendo le notizie sul conflitto tra le procure della Repubblica di Salerno e Catanzaro, sul reciproco sequestro di atti giudiziari operati per il tramite di gruppi contrapposti di Carabinieri, sulle reciproche e gravissime accuse che rimbalzano da una procura all’altra, mi è venuto in mente quanto detto al recente convegno sulla giustizia del Partito Democratico da un notissimo dirigente di lungo corso dell’Associazione Nazionale Magistrati, il Dott. Bruti Liberati.  Ci ha detto  che le conflittualità generate dall’operato della magistratura  nell’applicare la legge sono fisiologiche in democrazia. Ha specificato che è pertanto del tutto fisiologico che dalle iniziative giudiziarie vengano colpiti uomini politici e messi in crisi i governi democraticamente eletti. Ha testualmente aggiunto che  “l’iniziativa della magistratura non deve incontrare limiti”.  Molto chiara, seppure implicita, la riaffermazione della piena legittimità e valenza democratica dell’avviso di garanzia recapitato a mezzo stampa al Presidente Berlusconi dalla  Procura di Milano nel 1994, delle iniziative della Procura di Salerno che, colpendo il Ministro Mastella, hanno determinato quest’anno la caduta del Governo Prodi, di tutte quelle iniziative giudiziarie di tangentopoli che hanno trascinato nel fango della gogna giudiziaria molti cittadini e politici poi risultati innocenti (da ultime anche le assoluzioni degli  On. Gava e Mannino).   Da parte sua nessuna riflessione sul fatto che le moltissime iniziative giudiziarie che si concludono dopo anni con la piena assoluzione di cittadini non hanno mai determinato, a differenza di altri paesi democratici, nessuna forma di responsabilità per chi quelle iniziative ha assunto senza avere sufficienti elementi di prova.   Bruti  Liberati ha quindi concluso il suo discorso con un monito rivolto a tutti noi.  Parafrasando  una frase di Humphrey Bogart  ci ha detto: “è l’indipendenza della magistratura, bellezza, e non ci puoi fare niente!”.   A me sembra che questa arrogante affermazione di potere, di un potere insindacabile, se deve valere per gli uomini politici e per la caduta di governi  legittimamente eletti, debba conseguentemente valere anche per le iniziative giudiziarie assunte dalle Procure di Catanzaro e Salerno.  Anche per quelle iniziative bisognerebbe limitarsi a dire “è l’indipendenza della magistratura, bellezza,  e non ci puoi far niente!”,  e lasciare quindi che la “giustizia” anche in questo caso faccia il suo corso senza interferenze e per tutto il tempo necessario alla nostra macilenta macchina giudiziaria .   Poiché questa volta le iniziative dei pubblici ministeri riguardano e “delegittimano” le istituzioni giudiziarie e la magistratura, invece,  sembra che la correttezza delle iniziative giudiziarie da loro assunte e le loro responsabilità debbano essere immediatamente accertate, senza attendere gli esiti giudiziari delle iniziative da loro intraprese.

Sia ben chiaro, non voglio certamente dire che anche in questo caso le responsabilità e le decisioni dei pubblici ministeri debbano essere insindacabili.   Voglio invece dire che il problema della trasparenza e della responsabilizzazione delle iniziative del pubblico ministero per le scelte che egli compie nell’effettuare le indagini e nell’iniziativa penale deve essere affrontato non solo con riferimento alle iniziative della procure e dei pubblici ministri di Salerno e Catanzaro ma, invece, in termini generali perché riguarda tutti noi.  Riguarda  il fatto che in Italia ciascun pubblico ministero può, anche di sua iniziativa, indagare su ciascuno di noi per reati che ritiene (più o meno giustificatamene) siano stati da noi commessi, utilizzare senza limiti di spesa le forze di polizia e gli strumenti di indagine che ritiene più adeguati.  Se dopo molti anni risulta che le iniziative dei PM erano prive di sufficienti elementi probatori o addirittura prive di qualsiasi giustificazione, il PM non ne porta comunque alcuna responsabilità.  Nulla conta  che la sua iniziativa abbia procurato danni irreversibili a cittadini innocenti (economici, sociali, politici, alla sua  famiglia, alla sua salute), nulla conta che la sua iniziativa giudiziaria abbia gravato le casse dello Stato di ingenti spese prive di giustificazione. Il PM può con immancabile successo ed in ogni circostanza sostenere che il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale lo aveva costretto ad agire.  Questo principio Costituzionale cioè, pur essendo di fatto inapplicabile (in tutti i paesi  reati sono troppo numerosi per essere tutti perseguiti), formalmente legittima qualsiasi atto discrezionale del PM trasformandolo formalmente in un “atto dovuto”, e come tale insindacabile a prescindere dai danni che genera sul piano dei diritti civili, dei costi della giustizia e della sua efficienza. 

Va subito aggiunto che l’episodio del conflitto tra i magistrati delle procure di Salerno e Catanzaro evidenzia anche un’altra anomalia del nostro sistema giudiziario, strettamente collegata al principio di obbligatorietà dell’azione penale.  Avendo formalmente imposto a tutte le procure ed a tutti i pubblici ministeri l’impossibile compito di perseguire efficacemente tutti i reati, il nostro Costituente ne ha anche tratto la “logica” conseguenza  che  non vi era alcun bisogno di creare un sistema unitario e gerarchico dell’assetto del PM, e neppure un soggetto istituzionale che fosse politicamente responsabile del suo coordinamento e delle politiche pubbliche in materia criminale.  L’assetto unitario e gerarchico del PM su base nazionale è invece caratteristica comune  a tutti gli altri paesi democratici, ove un conflitto come quello tra le procure di Salerno e Catanzaro non si sarebbe potuto verificare non solo perché gli ambiti di discrezionalità dei Pm sono regolati e responsabilizzati ma anche perché avrebbe trovato preventiva soluzione e/o coordinamento al livello gerarchico più elevato, distrettuale o nazionale. 

Una postilla.  Il conflitto tra le procure di Salerno e Catanzaro è solo il più eclatante esempio della conflittualità che da molti anni caratterizza la vita delle nostre procure della Repubblica e che trae, anch’essa, origine dalla peculiari caratteristi di assetto del nostro PM.  Ricorrenti sono, infatti, stati i casi di aspri conflitti tra gruppi di pubblici ministeri all’interno delle singole procure, generati anche dai diversi orientamenti in materia di indagini e di rilevanza dei diversi tipi di reato  (ad esempio nelle procure di Palermo e della stessa Catanzaro nel 2005).  Di regola gli interventi del CSM in materia sono stati inefficaci e tardivi, anche perché l’appartenenza a diverse correnti dei PM in conflitto ha spesso generato in seno al CSM, paralizzanti e prolungate contrapposizioni tra i rappresentanti delle loro rispettive correnti. 

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Bocca? Un ex fascista dalla memoria corta

25 ottobre 2008 Commenti chiusi

Il Giornale, 25 ottobre 2008

Su segnalazione di un amico ho preso visione dell’articolo di Giorgio Bocca pubblicato questa settimana dal settimanale L’Espresso sotto il titolo “L’eterno fascismo italico”  Nella seconda parte dell’articolo Bocca ci spiega come Silvio Berlusconi rappresenti la reincarnazione del fascismo, argomento che i suoi lettori mi dicono essere ricorrente nei suoi scritti.  Per arrivare a queste non nuove conclusioni, tuttavia, Bocca copre anche me di “contumelie antifasciste” utilizzando un articolo da me pubblicato su questo giornale il 4 ottobre scorso dal titolo “Io, ex ragazzo di Salò non riconosco a Violante il diritto di legittimarmi”.  In verità più che utilizzare quel mio articolo Bocca lo manipola a suo piacimento, usando frasi che io riferisco al presente come se si riferissero al passato e facendomi dire cose che non ho scritto.  Scrive, ad esempio, che chi come me rifiuta “il diritto degli italiani occupati dai nazisti a tradire l’alleanza voluta da Mussolini per paura e convenienza, più che per ragioni ideologiche, rifiuta il diritto umano a scegliere tra il giusto e l’iniquo”.  Chi voglia rileggere il mio articolo può verificare che in esso non appare nessuna affermazione del genere.  In quell’articolo mi sono limitato a ricordare la mia brevissima esperienza di ex ragazzo di Salò e non mi sono per nulla occupato delle scelte altrui.  Ho ricordato quella mia lontana esperienza -lontana e diversa dai miei successivi impegni politici- al solo fine di rigettare l’idea che potesse avere l’autorità morale per “assolvermi” chi, come l’On. Violante, era divenuto comunista negli anni ‘70 pur essendo pienamente cosciente dei crimini commessi da Stalin e dai suoi successori.  Nel mio articolo dicevo anche che preferivo i comunisti che non perdonano la mia scelta di allora piuttosto che quelli che pretendono di “assolvermi”.  Faccio tuttavia una certa fatica ad estendere questa mia preferenza anche a Bocca per due distinte e diverse ragioni.

In primo luogo perché egli mi sopravvaluta nel ritenere che a 12 anni io fossi tanto precoce da avere piena conoscenza di eventi sconosciuti ai più, e di aver ciò nonostante scelto ..”la fedeltà ad una alleato nazista, imperialista, stragista…..” senza curarmi “del fatto che gli alleati nazisti stessero mandando nelle camere a gas milioni di innocenti” (voglio sperare che Bocca sia in grado di comprendere l’ironia di quanto appena detto).

In secondo luogo perchè Bocca è il meno adatto a sentenziare con tanta arroganza, con tanta altezzosa protervia sulle scelte da me fatte a 12 anni. Non avendo dimestichezza col personaggio Giorgio Bocca sono andato a vedere cosa si scrive di lui sul web, utilizzando il motore dei ricerca Google.  Alla voce “Biografia e libri” ho trovato che a 18 anni egli ha sottoscritto il manifesto fascista “in difesa della razza italiana”, e che “da giovane giornalista fascista nell’agosto 1942 [quando aveva già 22 anni] scrive un articolo in cui imputa il disastro della guerra alla congiura ebraica”.  Preso da curiosità ho voluto rintracciare quell’articolo e ne ho trovato dei passi alla voce “camelotdestraideale.it” ove si specifica che l’articolo di Bocca è apparso sul giornale “La Provincia Granda” il 4 agosto 1942 e che in esso Bocca, tra l’altro, scrive “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa della guerra attuale…..A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea…di essere lo schiavo degli ebrei?”.  Se gli astiosi rimproveri che Bocca mi rivolge per scelte da me fatte a 12 anni, escludendo perentoriamente che esse siano state fatto in buona fede e purezza di intenti, mi fossero stati rivolti da un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti ne avrei sofferto, ma avrei taciuto in rispettoso, doveroso silenzio.  Non posso certo accettarli da chi, come Bocca a 22 anni, cioè in età già matura, ha scritto articoli in cui si esprimevano orientamenti e convinzioni non dissimili da coloro che nello stesso periodo avevano creato i lager per lo sterminio degli ebrei.  Anche se mi rendo conto della sostanziale differenza che vi è tra il dire ed il fare, vi è comunque una comune “cultura”, una comune valutazione della pericolosità della razza ebraica.

Una postilla.  Personalmente ho sempre pensato che sia inelegante scavare nel passato delle persone per ricordare loro comportamenti e convinzioni che hanno abbandonato da moltissimo tempo.  Sinceramente mi spiace di non aver potuto evitare di farlo in questa circostanza.

 

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Commenti a “Io, ex ragazzo di Salò non riconosco a Violante il diritto di legittimarmi”

4 ottobre 2008 Commenti chiusi

Il Giornale, 4 ottobre 2008

#1 giocarra (20) – lettore

il 04.10.08 alle ore 8:20 scrive:

Questo è un uomo ! L’altro è un quaquaraqua, che segue le sue convenienze. La differenza è lampante. giocarra

 

#2 rafbv (5) – lettore

il 04.10.08 alle ore 8:48 scrive:

Gentile prof. il suo sfogo ha suscitato in me una profonda tenerezza nei confronti di quel bambino. Sfortunatamente i sentimenti che lo muovevano -onore,fedeltà,coerenza,disinteresse,buona fede- mi sembrano particolarmente in disuso -di più, mi sembra che non abbiano mai messo solide radici nell’italica stirpe:Franza o Spagna….Penso che non poche responsabilità risalgano al lassismo etico del cattolicesimo (ben diversa l’etica protestante più esigente e attena alla corrispondenza tra parole e opere) anche se l’intero pianeta si sta omologando in virtù della globalizzazione economica e televisiva. Quanto a Violante non e’ un caso isolato: D’Alema,Fassino,Bersani,Veltroni sono solo uomini buoni per tutte le stagioni. Distinti saluti

 

#3 Carlo-Maria.Trajna@tele2. (166) – lettore

il 04.10.08 alle ore 8:48 scrive:

“come allora cerco ancora di fare le cose in cui credo senza curarmi troppo delle mie convenienze”:questo raro tipo di italiano merita tutto il nostro rispetto!

 

#4 Gianenrico (2) – lettore

il 04.10.08 alle ore 9:07 scrive:

Non ho mai neppure lontanamente condiviso le idee del PNF né della RSI; neppure peraltro quelle del comunismo. Ritengo l’articolo del Prof. Di Federico “PERFETTO” per forma, stile, costruzione e contenuto. Complimenti!!

 

#5 c_gera (145) – lettore

il 04.10.08 alle ore 9:34 scrive:

Credo sia un’anomalia tutta italiana quella secondo la quale pochi personaggi decidono chi debba essere apprezzato o meno, e cosi ci tocca sentir parole come “sdoganamenti”, “legittimazioni”, che secondo il loro pensiero dovrebbero significare la fine dell’ostracismo, l’autorizzazione al ritorno alla vita pubblica in generale, a quella politica in particolare, per chi non la pensa come loro. Fascismo e nazismo sono state esperienze finite sessantatre anni fa, rappresentano il passato, e mi sembra che nessuno voglia magnificarne le gesta, anzi. Alcuni hanno vissuto quel periodo nel più totale fanatismo, altri in buona fede perché all’oscuro delle molte tragedie che si stavano consumando (mica c’era internet all’epoca). La storia è storia e lasciamola agli storici. Quello che non torna invece in questa vicenda è che a voler vestire i panni dei puri ed assumere il ruolo di censori sono personaggi che abbracciano un’ideologia con un passato, ma anche un presente, da brividi.

Molti esponenti della destra italiana, hanno compiuto i cosiddetti strappi con il passato. Hanno criticato il fascismo, Mussolini, Salò. Si sono recati in Israele ed altro ancora per sottolineare la loro assoluta discontinuità con i fatti (all’epoca queste persone non erano nemmeno nate) ed ovviamente con l’ideologia. Si può dire altrettanto di tutti i personaggi della sinistra italiana a cominciare proprio da Violante? No. In casa PCI, DS PD ed altre formazioni di area, non si è mai udita una sillaba di autocritica, nemmeno quando è caduto il muro di Berlino, sulle efferatezze compiute dal comunismo, sia in passato, sia nei nostri giorni. Ed allora non è chiaro perché chi ha idee di destra debba essere sdoganato, mentre chi le ha di sinistra no. Quando qualcuno inizierà a spiegare questa sciocchezzuola forse il clima politico italiano diventerà respirabile, altrimenti i soliti quattro furbi continueranno a campare alla grande nascondendo la loro reale indole. Claudio Gera

 

#7 honhil (158) – lettore

il 04.10.08 alle ore 10:13 scrive:

Finire di leggere un “pezzo” e trovarsi con gli occhi umidi è una bella sensazione. No, Violante, per quello che ha rappresentato e rappresenta, per il suo modo arrogante e a volte violento di interpretare il suo ruolo politico, per le sue virulente accuse contro i suoi avversari politi, rei soltanto di professare idee politiche diverse, non ha, ne può mai avere, l’autorità morale di cui ne fa abuso. Sempre per perseguire i suoi personali interessi politici e di carriera.

 

#8 cardo (489) – lettore

il 04.10.08 alle ore 10:25 scrive:

Professore, grazie per aver trovato la misura giusta.

 

#9 mab (539) – lettore

il 04.10.08 alle ore 10:32 scrive:

Ottimo articolo per spessore umano e tempestività politica. A proposito di quest’ultima vorrei far notare che, se proprio dobbiamo – ma dobbiamo? – eleggere qualcuno di sinistra alla Corte Costituzionale e alla Vigilanza, almeno scegliamolo noi: abbiamo i numeri per farlo e di personaggi di sinistra, sebbene pochi, per fortuna ce ne sono! Starà poi alla sinistra o “disconoscerli” con sommo imbarazzo, o con altrettanto imbarazzo dire “grazie”…

 

#10 fabio.bonari (393) – lettore

il 04.10.08 alle ore 10:54 scrive:

Un pezzo da antologia.

 

#11 angelopoli (1) – lettore

il 04.10.08 alle ore 11:24 scrive:

Sono contento di poter leggere questo sfogo pubblico . Ritengo storicamente importante testimonianze come la sua per poter finalmente avere un discorso più sereno della nostra storia . Angelo Poli

 

#12 andrea storace (83) – lettore

il 04.10.08 alle ore 11:53 scrive:

condivido pienamente come figlio di 2 ragazzi di Saó nipote di due eroi 1 vilmente torturato e fatto a pezzi il 14 settembre del 44 e l’altro sul fronte di Nettuno e cugino di un martire di 15 anni buttato in un alto forno a Genova da una volante rossa a guerra finita perché figlio di un “fascista” Interpreto cosi il messaggio di Di Federico : quando i comunisti saranno capaci di effettuare la stessa profonda autocritica che noi abbiamo fatto?

 

#13 ondeb (6) – lettore

il 04.10.08 alle ore 12:59 scrive:

Una sola parola al prof. Di Federico: grazie. Solo uno scritto di chi ha vissuto quell’esperienza sulla propria pelle può permettere a chi non c’era di capire tutto. Grazie ancora.

 

#14 porthos (640) – lettore

il 04.10.08 alle ore 13:13 scrive:

Gentile Professore, non solo ha trovato la misura giusta, ma vi ha aggiunto, con ferma e signorile sobrietà, il giusto peso e la piena e meritata qualità. Mi permetta di esprimerLe la mia piena solidarietà e, condivisione, dei suoi giustissimi e sacrosanti sentimenti. Cordialità

 

#15 francyderasmo (167) – lettore

il 04.10.08 alle ore 13:16 scrive:

complimenti professore, con la sua lettera lei ha riscattato molti ex soldati che avevano voglia di scrivere e denunciare le motivazioni delle loro scelte guidate da puro idealismo e che invece si sono ritrovate in un inferno che neppure immaginavano. credo che la sua lettera abbia rassicurato tante persone togliendo quel piccolo rimorso che ancora attanagliava la loro anima, per aver seguito, inconsciamente, delle persone che avevano la mente annullata dal potere e dalla violenza.

 

#16 Wolf (1645) – lettore

il 04.10.08 alle ore 13:35 scrive:

Bella lettera.

 

#17 Giorgio Rubiu (225) – lettore

il 04.10.08 alle ore 13:39 scrive:

Professore,da coetaneo che quei tempi li ha vissuti a pochi chilometri di distanza da dove era Lei,posso dirLe che Lei ha trovato “la misura giusta”. Lontani da inutili e sterili recriminazioni. Memori di fatti che i nostri occhi spaventati e non più innocenti,hanno visto e che siamo in grado di ricordare con la pacatezza che ci viene dalla nostra età e dalle esperienze vissute in seguito. L’anno prima che Lei cercasse di arruolarsi per la prima volta,mio padre,quarantunenne,morì,da carabiniere del reparto Celere,a Millerovo (Ucraina).Un nome che non ha alcun riferimento geografico essendo stato una definizione di comodo dell’esercito italiano. Mi piace credere che,la dove c’era la sua povera tomba,oggi vi siano fertili campi di grano con un mucchio di papaveri che terranno il posto dei fiori che non potemmo mai portargli. Il suo articolo mi ha fatto a piangere lacrime con non sapevo più di avere. Ed io,per questo,Le sono assolutamenet grato.

 

#18 gigigi (280) – lettore

il 04.10.08 alle ore 14:08 scrive:

Si, si, bravissimo professore. Finalmente una persona degnissima quale e’ sicuramente Lei, ha compiuto il gesto ideale nei confronti di cotanto politico, che usa da sempre, l’opportunismo, per migliorare la qualità della vita, la sua. Quando io, vecchio Sottufficiale MM, ho scritto il mio pensiero, forse troppo decisamente contro questo signore, il Giornale mi rischiamo giustamente all’ordine, negandone la pubblicazione. Sono contento che la “misura giusta” sia venuta da Lei, vero rappresentante di vita vissuta di quel periodo in cui la vita di un Soldato della Repubblica di Salò non valeva un soldo bucato. Grazie e che Dio La benedica.

 

#19 giuseppe galiano (109) – lettore

il 04.10.08 alle ore 15:59 scrive:

Bravo Professore, sapesse quanta gente la pensa come Lei.

 

#20 Sylvia Mayer (2184) – lettore

il 04.10.08 alle ore 16:07 scrive:

Il massimo dello sconforto,leggendo articoli come questo, è sapere poi che i vecchi comunisti,i maestri dell’attuale”sinistra”,eran stati quasi tutti fascisti. Ma cambiarono bandiera pochi giorni prima o subito dopo,e da subito ostracizzarono gli ex fascisti o quelli che neppure lo erano stati che non erano approdati nelle fila della”sinistra”. Occultando il loro passato con l’aiuto dei monopolizzatori della cultura dalla loro parte,presentandosi vergini giudici degli altri. Si veda il caso Gunter Grass. Si legga”Cancellare le tracce”di Pierluigi Battista,ricco anche di una bibliografia fra cui scegliere se si vuol sapere. C’erano praticamente tutti,fascisti ed antisemiti,quelli che poi divennero i soloni comunisti e di “sinistra”. Quelli che passarono da Mussolini a Stalin senza soluzione di continuità. Da un dittatore ad un altro. Triste non e’che lo siano stati,ignobile e’che puntino il dito contro altri che lo furono. Ancora oggi. Spesso,esattamente gli stessi. Ex fascisti ed ex comunisti.

 

#21 Sylvia Mayer (2184) – lettore

il 04.10.08 alle ore 16:09 scrive:

L’ha trovata,la misura giusta. E glie ne sono profondamente grata,perchéil bisogno di sapere che esiste onestàintellettuale e’ fortissimo. Sono nata dopo tutto questo,non posso sapere come sarei stata se fossi vissuta allora. E’stato quindi più facile,per me,essere contraria al fascismo da subito,e di esserlo divenuta ancora di più nel tempo con gli strumenti culturali che io ho avuto,e lei no. Quegli stessi strumenti che,comunque pochi e poco a disposizione,mi insegnarono ad essere anticomunista. Capisco la sua posizione perché anch’io sento inaccettabile,nel più intimo di me stessa,che gente adulta che sapeva e che ciò nonostante e’stata comunista e si e’spesa fino a ieri perché questo Paese lo diventasse,dispensi accuse ed assoluzioni agli altri. Che questa gente,insieme ad altri che del comunismo fanno ancora la loro bandiera,possa sedere in Parlamento.

 

#22 utordone (255) – lettore

il 04.10.08 alle ore 16:39 scrive:

Certo Di Federico, certo che ha trovato la misura giusta e glie lo dice uno il cui padre (impiegato civile del Ministero degli Interni) della repubblica di Salò, ha per questo rischiato la vita e perso il lavoro. Ma queste per molti, sono bazzecole. Il fatto è che nella valutazione dei fatti, spesso mi dico che i partigiani “rossi” i quali combattevano non per la democrazia ma per instaurare un regime stalinista, neanche loro sapevano degli eccidi compiuti da Stalin nel gli anni del suo regime. Ma di fronte alle stragi di innocenti compiute da quei partigiani, il “credo” nell’ideale, diventa (e di molto) secondario: loro uccidevano tutti coloro che si erano macchiati della colpa di aver creduto nel fascismo (anche chi non aveva versati una goccia di sangue innocente): ultima considerazione: gli alleati arruolavano volontari italiani e li inquadravano in regolari reparti da combattimento: perchè i partigiani non l’anno fatto provocando,di fatto,il consumarsi delle “decimazioni” ?

 

#23 micuomo (84) – lettore

il 04.10.08 alle ore 16:52 scrive:

Complimenti al professore Di Federico:ha raggiunto un giusto equilibrio di valutazione e di sentimenti. Vero che il condizionamento di educazione e di propaganda ha spinto verso la Repubblica di Salò molti volontari : sembra che molti non fossero volontari ma costretti dalle autorità locali con ricatti di vario genere. Comunque sempre ITALIANI che difendevano la loro ITALIA. Nessuno ha diritto di condannare chi per amore patrio è morto senza badare a interessi personali. I cimiteri militari sono solo croci e nomi. La storia e la politica sono esattamente l’opposto. saluti micuomo

 

#24 MLPremuda (14) – lettore

il 04.10.08 alle ore 17:25 scrive:

Grazie per questo articolo, professore. Ho qualche anno meno di lei, ma quei tempi li ricordo. La mia famiglia, in buona parte, “sentiva” come la sua. Ho sempre pensato che fossero tempi in cui un giovane che sceglieva la parte sconfitta lo faceva in totale purezza d’intenti. Il che non era sempre vero per la parte opposta. Lei me lo ha confermato. Grazie ancora.

 

#25 Biri107 (340) – lettore

il 04.10.08 alle ore 17:34 scrive:

Sì, caro professore, lei è riuscito perfettamente nel suo intento, ed ha la stima e la solidarietà (e anche l’affetto) di tutti noi. Ecco un resoconto fedele di ciò che animava la maggior parte dei “ragazzi di Salò”. Ciò che animava i loro avversari invece, a parte la gran massa di opportunisti degli ultimi giorni, era il progetto di realizzare in Italia un regime di tipo sovietico, legato a Mosca. E a tal fine non si facevano scrupolo di scatenare la reazione tedesca sulla popolazione inerme (vedi Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ecc), che nei loro piani sarebbe dovuta insorgere e fare la “rivoluzione”. Svanito quel progetto (la “Resistenza tradita”!), si sono poi sfogati – a guerra finita – in vendette personali e pulizie etniche. E oggi – dopo sessant’anni – loro sono “la scelta giusta”, quelli che dispensano riconoscimenti e patenti di democraticità. Il nostro professore invece è il “Male assoluto”. Evviva.

 

#26 Giorgio Rubiu (225) – lettore

il 04.10.08 alle ore 17:52 scrive:

# 16 wolf – “Bella lettera” è, per la sua brevità e sincerità, il miglior commento che sia stato scritto. La stringatezza del messaggio non riesce a nascondere l’emotività e la commozione. Bravo! Come sempre!

 

#27 walt40 (4) – lettore

il 04.10.08 alle ore 18:01 scrive:

Grande Professore Emerito Giuseppe Di Federico, io la penso esattamente come Lui, il comunista Violante sta lecchinando il centrodestra per essere eletto a capo del Consiglio superiore della Magistratura.

 

#28 nando_romano (3) – lettore

il 04.10.08 alle ore 18:51 scrive:

che dire a un uomo così, ONORE al MERITO, e a tutti quelli che all’epoca dei fatti si comportarono in quella maniera, perchè ritennero giusto mantenere una parola data!

 

#29 Giuseppe Balzan (125) – lettore

il 04.10.08 alle ore 19:48 scrive:

Onore alla Sua persona e grazie per aver raccontato la sua storia c’ero anch’io quindi può pensare come io la possa aprezzare Saluti e tanta salute Giuseppe

 

#30 roby55 (87) – lettore

il 04.10.08 alle ore 20:14 scrive:

Condivido pienamente. Complimenti prof. Di Federico.

 

Io, ex ragazzo di Salò non riconosco a Violante il diritto di legittimarmi

4 ottobre 2008 Commenti chiusi

Il Giornale, 4 ottobre 2008

In questi giorni vari giornali hanno ricordato, per l’ennesima volta, che l’On. Violante, quando era presidente della Camera, aveva “legittimato” i ragazzi di Salò che avevano combattuto per ideali in cui credevano in buona fede.  Ricordo che allora l’On Tremaglia più di tutti ebbe a compiacersi di quel riconoscimento.  In quell’occasione io, ex ragazzo di Salò, detestai l’On. Tremaglia e gli altri del suo partito che assunsero atteggiamenti simili ai suoi.  Mi sentii inoltre profondamente offeso dall’iniziativa dell’On. Violante, con cui avevo avuto sino ad allora rapporti non ostili.  Per spiegare il perché di questa mia reazione devo raccontare brevemente la mia storia di ex-ragazzo di Salò. 

Nel 1944, quando avevo solo 12 anni, pensavo che fosse un disonore aver cambiato alleati nel corso della guerra e che questo disonore doveva essere “lavato”, se necessario, anche con il proprio sangue” (erano le parole allora in uso che io seguitavo a ripetermi).  Volendo arruolarmi andai al comando delle Brigate Nere che, a Bologna, aveva sede in Via Manzoni.  Presero i miei dati personali, indirizzo compreso, ed avvertirono subito mio padre (abitavamo molto vicino e cioè nell’ufficio di mio padre in Palazzo d’Accursio, dopo che la nostra casa era andata distrutta dai bombardamenti).  Mio padre mi disse che ero troppo giovane per fare il soldato e che comunque chi vuol farlo non sceglie un corpo di polizia politica, come le Brigate Nere, ma un regolare corpo dell’esercito “in grigio verde”.  Allora non riuscii a capire perché, ma ne tenni conto.  Il mio secondo tentativo fu fatto all’inizio del 1945.  Andai questa volta al comando della Decima Mas e riuscii a convincere il capitano Simula ad arruolarmi (ricordo il suo nome perché è scritto sul modulo del reclutamento che ancora conservo),  Per convincerlo gli mostrai il giornale che riportava il decreto firmato da Mussolini con cui si autorizzava l’arruolamento dei minori di 16 anni,  gli dissi che i miei genitori erano entrambi morti sotto i bombardamenti e che vivevo ospite di parenti non stretti che erano molto seccati di doversi occupare di me (le condizioni di devastazione in cui versava Bologna gli impedivano di controllare).  Con una certa riluttanza mi firmò il foglio di via per Milano (Piazza Fiume) dove sarei dovuto andare con mezzi di fortuna.  Come a qualsiasi altra recluta mi offrì una razione di sigarette e 500 lire.  Con sdegno rifiutai l’offerta “perché quello che facevo non lo facevo per avere compensi”, ed insieme con un altro ragazzo, senza una lira in tasca, mi avviai alla volta di Milano ove giunsi quattro o cinque giorni dopo.  Ben presto fui riportato dai miei genitori. 

Con l’arrivo delle truppe alleate, il 21 aprile 1945, dovemmo fuggire la notte stessa, per evitare che mio padre fosse, senza ragione alcuna, sommariamente giustiziato (che questa fosse l’intenzione dei partigiani ci era stato detto dal comandante dei vigili urbani che aveva con loro rapporti).  Mio padre fu comunque epurato sino al 1953, e per 8 anni vivemmo prima in uno scantinato e poi in una soffitta.

Dopo la guerra la mia famiglia ed io ci rifiutammo di credere che i nostri alleati tedeschi avessero organizzato campi di sterminio.  Era la propaganda dei vincitori.  Ci ricredemmo solo quando tornò dall’America il fratello di mia madre che ci disse che era tutto vero (a lui non potevamo non credere).  Fu un vero shock per tutti noi.

Per comprendere appieno i sentimenti che ispiravano i comportamenti della mia famiglia, e quindi anche i miei, ricordo che vari anni dopo fine della guerra trovai la mala copia di una lettera che mio padre, congedato dall’esercito nel luglio 1943, aveva scritto all’inizio del 1944 ad un colonnello, suo ex commilitone, che lo sollecitava ad entrare nelle forze armate della Repubblica di Salò.  Nella sua lettera mio padre diceva che si augurava la vittoria dell’Asse, ma che non poteva accettare.  Per quanto considerasse i partigiani dei traditori non avrebbe potuto mai sparare contro un altro italiano. 

Per molti anni mi sono tenuto lontano dalla politica, le esperienze fatte dalla fine della guerra me lo impedivano.  Solo nel 1956, a Londra mi sono avvicinato alle idee socialiste.  Ma di politica attiva non ne ho fatta fino alla metà degli anni ’60 dopo tre anni di permanenza negli Stati Uniti.

Dopo questi brevi ricordi posso ritenere che sia possibile far comprendere le ragioni per cui mi sentii offeso dai riconoscimenti che agli ex ragazzi di Salò provenivano da Violante e dagli apprezzamenti a lui rivolti da Tremaglia ed altri.  Come ex ragazzo di Salò non posso accettare di vedere legittimati i miei comportamenti di allora, tutti ispirati da sentimenti coltivati in assoluta buona fede, da un signore che nonostante conoscesse i crimini commessi da Stalin (io quelli commessi da Hitler non li conoscevo), nonostante la repressione dell’Armata Rossa a Budapest si è iscritto al Partito Comunista con piena coscienza di quegli eventi.  Io non voglio giudicare o condannare le sue scelte politiche.  Quelle scelte tuttavia non gli danno nessun titolo, nessuna autorità morale per legittimare i miei comportamenti e le mie scelte di quando avevo neanche 13 anni, e neppure quelle di chi aveva più anni di me, che in purezza di sentimenti fecero scelte simili alle mie.  Sinceramente preferisco i suoi compagni di partito che non cambiano idea sulle mie scelte di allora.  Io, per mio conto, sono ancora orgoglioso delle scelte che feci allora, pur avendo da moltissimi anni coltivato idee politiche ben lontane da quelle della Repubblica di Salò.  Ne sono orgoglioso perché ora come allora cerco ancora di fare le cose in cui credo senza curarmi troppo delle mie convenienze.  Può dire lo stesso l’On. Violante?

Una postilla:  più volte in passato ho pensato di scrivere questo articolo e più volte ho cominciato a farlo.  Ci mettevo troppa rabbia e non trovavo la misura giusta.  Spero di averla trovata questa volta. 

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“La collocazione del p.m. nell’esecutivo non è un attentato alla democrazia”

29 luglio 2008 Commenti chiusi

IL RIFORMISTA, 29 luglio 2008 

Non avete la divisione dei poteri in Italia? Più volte mi sono sentito rivolgere questa domanda nel corso di seminari tenuti nei paesi di tradizione giuridica anglosassone dopo aver detto che da noi giudici e pubblici ministeri appartengono alla stessa carriera e che il pubblico ministero è pienamente indipendente.  La collocazione del pubblico ministero nell’ambito dell’esecutivo non è però solo del mondo anglosassone.  Anche nei paesi dell’Europa continentale il PM è quasi sempre collocato nell’ambito del potere esecutivo o comunque collegato, in varie forme, da vincoli gerarchici al Ministro della giustizia (Germania, Austria, Danimarca, Svezia, Olanda Belgio, Spagna, e così via). Anche in Francia dove giudici e pubblici ministeri appartengono, come in Italia, allo stesso corpo, i pubblici ministeri sono comunque inquadrati in un assetto gerarchico che ha il ministro della giustizia al suo vertice (e i procuratori generali sono tutti nominati dal Consiglio dei ministri). 

            La ragione di questa generale convergenza istituzionale tra i paesi a consolidata democrazia risiede nel fatto che il pubblico ministero compie e non può non compiere scelte di natura discrezionale nel decidere quali mezzi di indagine utilizzare nei singoli casi e se promuovere o meno l’azione penale.  Compie cioè quotidianamente scelte di politica criminale che incidono sull’efficacia repressiva dei fenomeni criminali e sulla tutela dei diritti del cittadino nell’ambito processuale.  Come per tutte le altre politiche pubbliche  (nei settori della sanità, della previdenza, del lavoro, ecc.) si ritiene quindi che anche per le politiche criminali  vi debba essere una responsabilità politica del governo e una attenta supervisione delle attività che vengono compiute in questo settore.  Tra i paesi a consolidata tradizione democratica l’Italia è l’unico paese con un pubblico ministero che da un canto è del tutto svincolato dal processo democratico (nessuno è responsabile delle sue scelte discrezionali),   dall’altro è organizzato nell’ambito di una debolissima struttura gerarchica priva di un vertice organizzativo di livello nazionale.

            I nostri padri costituenti decisero di inserire in Costituzione il principio di obbligatorietà dell’azione penale perchè ritenevano possibile che il PM potesse perseguire efficacemente tutti i reati. Imponendo formalmente ai pubblici ministeri di perseguire tutti i reati si veniva a sottrarre loro, così ragionarono i costituenti, qualsiasi forma di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale.  Non era quindi necessario creare un vertice organizzativo politicamente responsabile della loro attività.  Il nostro PM poteva quindi essere pienamente indipendente.  Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero erano cioè, nella visione del nostro Costituente, due facce della stessa medaglia.  L’una non si giustificava senza l’altra.

            Il riconoscimento -ormai diffuso- della inapplicabilità del principio di obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe anche comportare, seguendo la stessa logica istituzionale del nostro costituente, la ridefinizione dello status di indipendenza del PM e della sua struttura organizzativa.  Non si tratta però, occorre subito aggiungere, di una necessità che deriva solo, e neppure principalmente, dall’esigenza di rivedere le simmetrie istituzionali immaginate dal nostro costituente.  Ben più importante è la constatazione (tardiva) che il mantenimento del binomio obbligatorietà-indipendenza comporta prezzi altissimi per la tutela di valori costituzionalmente protetti in tutti i paesi democratici, incluso il nostro.  In un recente articolo, pubblicato su questo giornale il primo luglio scorso, ho sinteticamente mostrato come l’inapplicabile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, posta nelle mani di pubblici ministeri assolutamente indipendenti e non responsabili per le decisioni discrezionali che assumono nella scelta dei mezzi di indagine e nell’iniziativa penale, pregiudichi la tutela di valori di grande rilievo in democrazia.  Tra l’altro, perché impedisce di tutelare efficacemente l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la protezione dei loro diritti civili nell’ambito processuale, perchè sottrae al controllo democratico una consistente parte delle scelte di politica criminale e rende ingestibili i tempi del processo penale. 

Tuttavia, se da un canto vi è l’esigenza di rivedere la collocazione istituzionale del nostro PM, dall’altro occorre tener presente che non vi sono soluzioni facili per configurarla e gestirla.  Si tratta, infatti di bilanciare a livello operativo due aspetti del ruolo del PM che sono tra loro confliggenti, ma entrambi di grande rilievo.  Da un lato la consapevolezza che il PM partecipa alla formulazione e attuazione delle politiche criminali impone l’adozione di meccanismi che ne regolino e responsabilizzino l’azione nell’ambito del processo democratico.  Dall’altro l’esigenza di garantire che il PM operi con criteri uniformi per tutti i cittadini impone di evitare un collegamento troppo stretto col le istituzioni politiche che ne dirigono e supervisionano l’attività, onde evitare che le maggioranze politiche del momento possano influenzare la sua condotta (attiva od omissiva) a fini di parte.   Le riforme e/o i numerosi dibattiti riguardanti il ruolo del PM che si sono verificati negli altri paesi democratici ove il PM viene responsabilizzato nell’ambito del processo democratico (USA, Inghilterra Olanda, Spagna, Portogallo, Canadà, e altri ancora) possono tuttavia fornire utili indicazioni per le soluzioni da adottare in Italia.

            La revisione dell’assetto del PM ed il suo collegamento istituzionale ad un organo che sia polticamente responsabile delle politiche pubbliche nazionali nel settore criminale assume, peraltro, una notevole e crescente valenza anche sul piano internazionale.  Già molti anni fa un nostro ministro della giustizia,  Tommaso Morlino, mi diceva che non amava andare alle riunioni dei ministri della giustizia della Comunità europea.  Gli altri ministri, mi diceva, parlano di quali priorità occorrerebbe adottare per contrastare i fenomeni criminali di ordine transnazionale.  E io che gli dico?  Che in Italia io non ho voce in capitolo perché le decisoni sulle priorità dei crimini da perseguire sono assunte dai pubblici ministeri in maniera del tutto indipendente? Per giunta in maniera spesso differente da procura a procura ed anche da PM a PM all’interno delle singole procure della Repubblica?

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Lodo Alfano? C’era già, fu inventato per salvare Scalfaro

27 luglio 2008 Commenti chiusi

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L’arbitrarietà dell’azione penale e le iniziative di cui parla Violante

8 luglio 2008 Commenti chiusi

Il Riformista, 8 luglio 2008

 

Venerdì corso sul giornale da Lei diretto è apparso un articolo dell’On. Violante nel quale si commentano e si criticano due aspetti del mio articolo sull’obbligatorietà dell’azione penale apparso, anch’esso, sul Suo giornale il primo luglio scorso.  Nel mio articolo suggerivo ad alcuni giornalisti di domandare all’On. Violante quali fossero le ragioni che lo avevano per molto tempo indotto a tacere su un fenomeno quale quello dell’inapplicabilità del principio di obbligatorietà dell’azione penale e delle  molteplici conseguenze disfunzionali che esse genera in un sistema democratico.  Nel suo articolo Violante mi ricorda che di quel fenomeno non ne ha parlato solo di recente, ma che lo ha fatto pubblicamente anche in passato. Per la prima volta nel 1998 in due diversi contesti, e cioè: in un libro da lui curato (che conosco, anche perché in esso vi è lo scritto di un mio allievo, il prof. Guarnieri), e  in occasione di un convegno degli avvocati penalisti di quell’anno (ero presente).  Se Violante legge bene il mio articolo vedrà che mi sono rivolto ai giornalisti che oggi si compiacciono che Lui abbia recentemente espresso giudizi negativi sul principio di obbligatorietà. Non parlavo di me perchè le cose da lui dette le conoscevo già.  Nel mio articolo suggerivo a quei giornalisti di domandare  quali fossero “le ragioni politiche e gli obiettivi di natura giudiziaria” che  hanno indotto Violante “a tacere per vari decenni  su un fenomeno di cui era certamente a conoscenza fin dai tempi in cui era giudice istruttore a Torino negli anni 1970”.  La domanda mantiene intatta la sua validità: Violante non ne ha parlato negli anni ’70, non negli anni ’80, ma, per sua stessa ammissione, solo alla fine degli anni ‘90, cioè vari anni dopo il periodo di Tangentopoli, che quel fenomeno aveva evidenziato in maniera eclatante, e dopo che le iniziative giudiziarie di quell’epoca avevano spazzato via tutti i partiti politici preesistenti, tranne il Suo.  Nel suo articolo Violante ci ricorda che nel suo intervento al convegno degli avvocati del 1998, lui denunziò “l’assoluta arbitrarietà della scelta delle priorità  nella trattazione degli affari penali” e le conseguenze negative che ciò comporta per il cittadino.  Questo solleva un ulteriore domanda, visto che nei successivi dieci anni Violante non ha svolto attività di tipo contemplativo ma è stato invece un parlamentare di notevole peso:  come mai non ha mai assunto nessuna iniziativa legislativa per porre rimendio a “l’assoluta arbitrietà” dell’azione penale ed ai pregiudizi che essa comporta per i cittadini di cui allora e ancora adesso lui stesso ci parla?

Vengo al secondo ordine di critiche che Violante mi rivolge e che riguarda la norma all’esame del Parlamento che regola le priorità nello svolgimento dei processi.   Se vuol sapere da me se io avrei proposto un norma di quel tipo, la risposta è no.  Non avrei neppure proposto le due norme che precedentemente hanno stabilito priorità nella celebrazione dei processi  approvate per iniziativa dei Governi Prodi e D’Alema nel 1998 e nel 2001.  Come ho spiegato nel mio articolo non sono norme che possono avere grande efficacia nello snellire e rendere meno costoso il  processo penale: non sono state efficaci in passato e, a mio avviso, non lo saranno neppure questa volta. L’unica soluzione efficace è quella percorsa dagli altri paesi democratici e, cioè quella di regolare in maniera eguale per tutti l’uso dei mezzi di indagine e le priorità nell’esercizio dell’azione penale.   Nel suo articolo Violante dice  testualmente che in passato per ben due volte il Parlamento ha “fissato criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale”.  Ammetto umilmente di non essermene accorto. Credevo che il Parlamento l’avesse fatto solo con riguardo alla celebrazione dei processi, che è cosa ben diversa.  

Sono molto grato al dott. Polito per la pubblicazione di questa lunga lettera.

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